Pubblicato il 27 Dicembre 2016 | di Redazione
0Ars boni et aequi. Ovvero i paralipòmeni della scienza giuridica
di Giuseppe Limone
1.Il problema
Hans Kelsen nei suoi Lineamenti di dottrina pura del diritto, chiarendo i tratti fondamentali del giuspositivismo, afferma senza mezzi termini che la giustizia è un ideale irrazionale[1]. In quanto tale, non suscettibile di conoscenza razionale. D’altra parte, dalla latinità antica perviene a noi, come è noto, l’idea del diritto come ars boni et aequi, come arte del buono e dell’equo.
Per Kelsen il diritto non è giustizia; per la latinità, il diritto è intrinsecamente connesso con il bonum e con l’aequum. Per Kelsen, di questo diritto (positivo) si dà scienza; per la latinità, di quel diritto (equitativo) si dà arte.
Fra il concetto di diritto positivo di Kelsen e l’ars boni et aequi del diritto romano la distanza non potrebbe essere maggiore. La questione è storica, filologica, epistemologica e stipulativa. Noi intenderemo qui porla da un ulteriore punto di vista. Non ci interrogheremo sui diversi contesti storici e filologici del significato di diritto. Ci domanderemo, invece, ponendoci in una prospettiva contemporanea, sulle strutture intrinseche in ogni discorso sul diritto. Ci interrogheremo, cioè, sui prolegòmeni a ogni discorso sul diritto, che si presenti come diritto positivo.
A prescindere dai significati specifici che nel loro contesto hanno il diritto positivo kelseniano e il diritto della cultura romana, la domanda che oggi è possibile rivolgersi è: ha un senso il significato del bonum et aequum, del buono e dell’equo, nel lessico giuridico contemporaneo? E, ancora più specificamente, può avere un suo senso l’ars boni et aequi (l’arte del buono e dell’equo) nella concezione giuspositivistica kelseniana?
In altri termini, ci interrogheremo su se abbia senso – e quale senso ̶ un bonum et aequum (un buon e un equo) nella concezione giuspositivistica di Hans Kelsen e, al tempo stesso, in qualsiasi altra concezione giuspositivistica.
Uno dei modi migliori per misurare la vitalità di un’idea è cercarne le tracce nel contesto più difficile, cioè in quello che la nega. Franz Kafka scriveva che dall’avversario ci viene la maggior forza. In questo contributo cercheremo di individuare nel testo kelseniano, guardandolo controluce, le tracce di un itinerario non immediatamente percettibile, ma molto chiaro, almeno in filigrana.
In un celebre film di Michelangelo Antonioni, Blow up (1966), il regista mostra come un fotografo ̶ attraverso progressivi ingrandimenti di una scena colta dall’obiettivo ̶ riesce ad identificare cose e avvenimenti che a prima vista non apparivano affatto: l’individuazione di un corpo e la consumazione di un delitto.
Cerchiamo di compiere alcuni passi.
2.Forma logica e forza reale
Vediamo il primo passo. Nel ricostruire la struttura dell’ordinamento giuridico positivo, presentata come costruzione a gradi (Stufenbau), Kelsen chiarisce il significato e il ruolo della norma fondamentale. Essa è quella norma non scritta che costituisce il presupposto logico necessario dell’intero ordinamento, al quale conferisce unità e validità (cioè esistenza nel mondo del diritto). Kelsen, però, quando si pone il problema di un colpo di stato o di una rivoluzione, sottolinea che questi due fenomeni socio-politici mutano la norma fondamentale[2]. Ci si può domandare, in proposito, come possa un colpo di stato o una rivoluzione – eventi appartenenti al mondo reale – mutare un presupposto logico, per giunta trascendentale.
Una possibile risposta è certamente nell’individuazione del doppio ruolo della norma fondamentale. Questa, nel suo contenuto semantico, è stata correttamente ricondotta da Norberto Bobbio all’affermazione: «obbedisci all’ordinamento giuridico». Domandiamoci: a un qualsiasi ordinamento giuridico? Se il colpo di stato e la rivoluzione incidono sulla sussistenza della norma fondamentale, il suo contenuto semantico va, a questo punto, correttamente riformulato. Ciò significa che la norma fondamentale, mentre costituisce il presupposto logico dell’ordinamento giuridico, si sostanzia nella formula: «obbedisci a questo ordinamento». Cioè a questo ordinamento giuridico effettivamente e storicamente – qui e ora – vigente.
La norma fondamentale ha, perciò, intrinseco nel suo significato il rinvio a una forza socio-politica che s’impone (un colpo di stato o una rivoluzione). Ma, in realtà, rinviando a questa forza, non rinvia ad essa soltanto in quanto s’impone, perché rinvia a essa in quanto permane nel suo imporsi. Kelsen, cioè, con la norma fondamentale rinvia a una forza originante e perdurante. Senza questa forza, quella norma fondamentale non sussisterebbe affatto, estinguendosi nel suo ruolo.
3.Dal presupposto logico al presupposto ontologico
In altri termini, nel considerare l’ordinamento giuridico di cui Kelsen parla, bisogna domandarsi non solo sul suo presupposto logico (la norma fondamentale) ma anche sul suo presupposto ontologico, ossia sul fenomeno socio-politico che, imponendo quella norma nel mondo dell’esistenza, fa permanere quella norma come tale.
In ultima analisi, dentro la norma fondamentale di Kelsen operano contemporaneamente due funzioni: quella che costituisce il presupposto logico dell’intero ordinamento e quella che trasmette a quello stesso ordinamento la forza reale, nascente dal mondo sociale, forza senza la quale quell’ordinamento non esisterebbe come reale, o meglio non potrebbe essere oggetto della scienza giuridica di un diritto in atto.
D’altra parte, Kelsen è pienamente consapevole del fatto che, pur potendosi distinguere tra validità di una norma (singola) ed efficacia di una norma (singola), per quanto concerne, invece, l’intero ordinamento giuridico la condizione di validità dell’ordinamento è costituita anche dalla sua effettività, ovvero dalla sua efficacia complessiva.
Si badi. Il complesso delle norme che costituiscono l’intero ordinamento giuridico non potrebbe essere tenuto in unità se non operasse un principio logico (una regola non scritta) che quelle norme tiene insieme. A questo principio logico la scienza giuridica è permanentemente connessa, allo scopo di strutturare e presentare quell’ordinamento come ordinamento, cioè come unitario. Ma, se questa scienza giuridica è scienza giuridica di un ordinamento effettivo e non di un ordinamento ineffettivo, essa non può non presupporre, come sostanza vivente del principio logico messo in opera, il mondo della vita che a quell’ordinamento giuridico dà perdurante esistenza e sostegno.
Si osservi. Esiste un punto specifico in cui Kelsen, parlando del diritto, esplicitamente dichiara che esso può vivere soltanto all’interno di un mondo di uomini che possano disobbedirgli[3]. Un complesso giuridico destinato alle pure realtà minerali o alle macchine non potrebbe essere diritto.
Se incrociamo le due osservazioni kelseniane sopra individuate – quella consapevole della decisività del colpo di stato e della rivoluzione come originanti e quella consapevole del destinatario ineludibile del mondo del diritto, quello umano –, ne ricaviamo che nella filigrana dell’impianto teorico kelseniano è ben visibile la consapevolezza che un ordinamento giuridico si muove a partire da un mondo umano che gli sottostà e si rivolge al mondo umano che ne è destinatario. Il mondo del diritto sta – necessariamente sta – fra il mondo umano che ne è il presupposto ontologico e il mondo umano che ne è il destinatario imprescindibile.
In questo orizzonte, il mondo umano, facendosi colpo di stato o rivoluzione o sostegno efficace e perdurante dell’ordinamento giuridico, lo fa sussistere e permanere come giuridico, destinandolo al mondo umano che ne è destinatario. In questo senso, la norma fondamentale, nella sua funzione portatrice di una forza reale, si pone come legame ombelicale tra la forza sociale a cui attinge e il mondo umano a cui si rivolge.
In definitiva, per comprendere un ordinamento giuridico, non basta ricorrere alla norma fondamentale che ne costituisce il presupposto logico. Occorre ricorrere al presupposto ontologico che a quel presupposto logico invisibilmente sottostà, cioè al mondo umano della vita.
Un ordinamento giuridico dà voce al mondo umano della vita che gli sottostà, e può farlo o perdurando nel suo essere come è o cambiando struttura per il mutamento che gli viene imposto. Più precisamente, questo mondo umano o si pone come mondo della forza che resiste al colpo di stato e alla rivoluzione o si pone come mondo della forza che realizza il colpo di stato e la rivoluzione.
Del resto, fin dall’inizio del suo discorso nei Lineamenti, Kelsen è consapevole del fatto che il mondo della vita sottende il mondo giuridico che ne costituisce qualificazione formale. Egli, infatti, puntualmente rileva che, ancor prima che il diritto qualifichi formalmente i fatti, questi fatti hanno già, nel mondo della vita, una loro auto-qualificazione[4]. Una tale osservazione, a ben vedere, non è da poco. Essa significa, in realtà, che, quando il diritto positivo qualifica i fatti di cui si occupa, non può non tener conto del fatto che questi fatti hanno già, nel mondo degli uomini, una loro auto-qualificazione. Bisogna domandarsi, a questo punto, se nel sistema kelseniano una tale auto-qualificazione dei fatti abbia un qualche ingresso. È ciò di cui, fra l’altro, intendiamo occuparci nelle righe che seguono.
4.L’ordinamento giuridico come struttura
Un ordinamento giuridico, fatto di norme, può essere pensato solo a certe condizioni fondamentali. A ben vedere, infatti, l’idea di ordinamento giuridico non è empiricamente dato dall’insieme delle leggi, dei decreti e degli altri atti che lo fondano e lo costituiscono. Questi atti, di per sé, sono una massa di dati storici non necessariamente organici e, peraltro, empiricamente disaggregati nello spazio e nel tempo. Perché possano essere pensati secondo un’idea di unità, occorre una precisa fictio, una speciale finzione, che, da un lato, de-psichizzi quegli atti storici di comando e, dall’altro lato, li de-temporalizzi connettendoli fra loro secondo una pura configurazione logica, atta a costituire una rete ordinamentale.
Per costruire un simile ordinamento, si farà necessariamente ricorso a principi, ossia a regole non scritte che precedono le norme scritte, appartenendo a quella ragione che è chiamata a compiere un’opera di unificazione ragionata.
Saranno impiegati, pertanto, principi, riconducibili a due tipi. Il primo è di carattere logico-formale, costituito dai puri criteri della logica (principio di identità, di non contraddizione, del terzo escluso), integrati ̶ peraltro ̶ da alcuni principi logico-funzionali, di carattere classificatorio, come quelli che riguardano la contenenza (norma generale/norma speciale), la temporalità (norma precedente/norma successiva) e la forza gerarchica (norma più forte/norma più debole). Il secondo tipo di principi è di carattere logico-sostanziale, costituito dal criterio fondamentale della ragion sufficiente, consistente nel domandarsi sulla ragione (cioè sul senso) della norma in oggetto.
Attraverso il primo tipo di principi (quello logico-formale e logico-funzionale) la ragione costruisce un ordinamento tendenzialmente coerente e completo: coerente, nel senso che la costruzione della rete normativa deve potersi presentare, nei limiti del possibile, senza contraddizioni; completo, nel senso che questa rete, per costituire ordinamento, deve poter contenere ̶ o aspirare a contenere ̶ al suo interno tutte le soluzioni possibili per i casi da regolare. Il risultato di questa fictio sarà la costruzione di un ordinamento pensato sul puro piano logico-formale e logico-classificatorio. A una tale costruzione tende principalmente quella che è stata chiamata “giurisprudenza dei concetti”.
Attraverso il secondo tipo di principi (quello fondato sulla ragion sufficiente) la ragione costruisce un ordinamento che, tenendo conto delle ragioni giustificative di ogni norma e del complesso delle norme, attinge le sue fondamentali ragioni ai bisogni della vita concreta. A una tale costruzione tende principalmente quella che è stata chiamata “giurisprudenza degli interessi”.
È utile, a questo punto, una sintetica esplorazione del rapporto fra norme e principi sul piano logico-sostanziale, ossia sul piano della ricerca della ragion sufficiente che li accomuna. In una prima approssimazione, possiamo dire che la norma è una regola scritta che disciplina una situazione determinata; il principio, invece, è una regola non scritta che costituisce la ragione giustificativa della regola scritta in cui vive (o è, nel caso in cui si presenti come principio scritto, una regola considerata come estensibile, secondo il criterio della somiglianza, oltre i limiti della sua stessa determinazione logico-linguistica). Questo principio, regola non scritta (o solo incompletamente scritta), mette in luce, perciò, tre funzioni: 1) consente di comprendere, interpretare e applicare la regola scritta di cui è la ragione giustificativa; 2) è capace di estendersi a tutti i casi simili che non sono esplicitamente regolati da regole scritte e che sono suscettibili di una medesima ragione giustificativa; 3) mette in connessione una norma con tutte le possibili altre – in forma di geometrie variabili – sulla base di una medesima ragione. In altri termini, il principio, a differenza della norma, è la ratio solo intellettualmente percettibile che vive nella norma. Esso si esprime in più forme: dando ragione giustificativa (cioè senso) alla norma stessa; confermando, restringendo o ampliando il suo significato; consentendo l’estendersi della norma ai casi simili da essa non regolati; permettendo il collegamento della norma con altre possibili norme sulla base di una comune ragione giustificativa.
Potremmo dire in proposito, per impiegare una dicitura platonica, che il principio non è immediatamente manifesto, perché intelligibile solo a una seconda navigazione, quella puramente intellettuale. In questo senso, il principio si presenta come non scritto: non nel senso, però, che non possa essere scritto, ma nel senso che non è esaustivamente formulabile per iscritto, potendo essere approssimato e prospettato in infinite altre forme, non circoscrivibili in modo esaustivo. In altri termini, si dice che il principio è non scritto, cioè non formulabile esaustivamente per iscritto, secondo lo stesso spirito con cui Platone contestava la scrittura in quanto tale. A ben vedere, Platone contestava la scrittura non perché i pensieri non potessero essere scritti, ma perché non potevano essere esaustivamente formulati. In effetti, la posizione platonica contro la scrittura era, più propriamente, la contestazione di ogni tipo di formulazione che si pretendesse esaustiva di un’idea.
Si osservi. Come una norma non può vivere senza un principio, chiamato a darle senso, così un principio non può vivere senza una norma chiamata a dargli carne. Una norma senza un principio che la giustifichi è cieca; un principio senza una norma in cui si incarni è vuoto. Una norma che impedisca al suo interlocutore di conoscere la sua ratio, non è una norma: è un ordine militare; un principio che si auto-impedisca di trasformarsi in una tavola di comportamenti normati, non è un principio: è un flatus vocis o uno slogan pubblicitario.
Come dicevamo, può ben trovarsi, a volte, un principio presentato come scritto. In questo caso, esso è norma, se è circoscritto ai casi specificamente indicati. Ma sarà principio nella misura in cui possa estendersi a casi simili (aventi la medesima ratio), la cui similarità non è preventivamente – cioè concettualmente – circoscrivibile.
5.Le lacune: dalla norma al principio
Hans Kelsen, per sostenere l’idea che un ordinamento giuridico è interamente fatto di norme (scritte), sostiene che in un ordinamento giuridico non vi sono lacune. Si intendono lacune di un ordinamento le situazioni in cui lo stesso ordinamento manca della norma specifica per il caso concreto considerato. Kelsen contesta l’esistenza delle lacune perché ritiene che esse non sono, in realtà, lacune, dal momento che consistono semplicemente nel desiderio che appartengano all’ordinamento norme che all’ordinamento non appartengono affatto in quanto non sono scritte. Le pretese lacune, perciò, per Kelsen non sono reali, ma ideologiche, cioè frutto di una proiezione del desiderio. Esse consistono, perciò, nella introduzione surrettizia di un desiderio all’interno dell’ordinamento considerato.
Kelsen stesso, però, ammette che esistono particolari lacune, da lui chiamate “lacune tecniche”, per le quali l’assenza di certe norme non permetterebbe a un istituto giuridico di funzionare[5]. Nel caso delle lacune cosiddette tecniche, Kelsen propone che le si interpreti in modo da rendere possibile, nell’ambito delle norme poste, il funzionamento dell’istituto giuridico considerato. L’esempio da Kelsen portato è quello di un consiglio per il quale non sia previsto chi lo convochi. In tal caso, mancando la norma contenente il potere di convocare, l’assenza della norma specifica va, per Kelsen, interpretata nel senso che qualsiasi componente del consiglio può convocare. Ma domandiamoci: perché mai dovrebbe operare questa interpretazione e non invece l’altra per la quale nessuno è autorizzato a convocare? Ossia: perché mai fra il principio interpretativo per cui tutti possono convocare e quello per cui nessuno può convocare dovrebbe prevalere, senza una ragione formale fondativa, il primo?
In realtà, se si approfondisce lo sguardo, l’interpretazione kelseniana concernente le lacune tecniche opera attraverso un principio non detto e non scritto per il quale l’istituto giuridico di cui si parla deve realizzare i fini della vita per cui esiste. Là dove mancano le norme esplicite per il funzionamento dell’istituto, deve poter operare, in realtà, un principio che attinge direttamente al mondo della vita, costituito dai suoi pragmatici scopi.
Vediamo, invece, il caso individuato da Ronald Dworkin, là dove egli considera la fattispecie per la quale un nipote, essendo stato con testamento dal nonno nominato erede, per ottenere l’eredità lo uccide. Può, in questa circostanza, il nipote ereditare dal nonno? Mentre nella lacuna tecnica si dà una mancanza normativa che impedisce all’istituto giuridico di funzionare, nella lacuna cosiddetta ideologica si dà una mancanza normativa che impedisce all’istituto di funzionare come istituto capace di salvaguardare un minimo del giusto.
Nel caso della lacuna tecnica, manca la norma necessaria al funzionamento dell’istituto; nel caso, invece, della lacuna ideologica, manca la norma desiderata. Ci sono, però, casi in cui è difficile, anzi impossibile, distinguere se manchi una norma necessaria o se manchi una norma desiderata. Potrebbe darsi, infatti, il caso in cui deve necessariamente individuarsi in un complesso normativo un “principio non scritto” per un elementare buonsenso. Del resto, anche nel caso della “lacuna tecnica” individuata da Kelsen, può scoprirsi che essa non differisce molto da una cosiddetta “lacuna ideologica”. Domandiamoci, infatti: qual è la ragione per la quale si sceglie di interpretare nel senso che chiunque possa convocare invece che nel senso che nessuno possa convocare? La vera ragione, non detta, è una sola: si desidera che l’organismo consiliare possa funzionare anzi che non possa funzionare. Anche nella lacuna tecnica, in realtà, è nascosta una lacuna ideologica.
Perciò, per quanto Kelsen accuratamente distingua le lacune tecniche dalle lacune ideologiche, una tale distinzione può diventare, a certi livelli di approfondimento, inafferrabile.
La vera questione, in realtà, è domandarsi su come impostare il problema delle lacune. Un contributo importante viene da una nota analisi di Norberto Bobbio[6]. Egli tratta della dottrina chiamata della norma generale esclusiva (Zitelman, Donati). Nella prospettiva di questa dottrina, una situazione regolata da una norma, viene vista come ricadente in una norma particolare inclusiva. La dottrina della norma generale esclusiva osserva, in proposito, che, quando opera una norma particolare inclusiva, sta contemporaneamente operando – nel caso considerato – una norma generale esclusiva, la quale esclude dalla norma particolare tutte le situazioni diverse da quella prevista. Ma – osserva Bobbio – possono presentarsi situazioni nelle quali è incerto se ricadano o non ricadano nella norma particolare inclusiva, trattandosi di situazioni solo per certi aspetti simili alla situazione considerata. Bobbio osserva, a questo punto, che deve potersi strutturalmente ipotizzare, accanto alla norma generale esclusiva, l’esistenza di una norma generale inclusiva, che concerne tutti i casi simili al caso specificamente disciplinato dalla norma particolare. Nell’ipotesi di una fattispecie simile ma non uguale, essa può essere attratta nella disciplina prevista dalla ipotizzata norma generale inclusiva.
Nella prospettiva di questa impostazione, nel caso di una fattispecie non prevista con certezza dalla norma particolare inclusiva, rimane, a questo punto, incerto se al caso non previsto debba applicarsi l’ipotizzata norma generale esclusiva o l’ipotizzata norma generale inclusiva. In una tale impostazione, cioè, la lacuna di un ordinamento si chiarisce come l’incertezza su se alla fattispecie considerata debba applicarsi la norma generale esclusiva o la norma generale inclusiva. Se in una sala è vietato entrare con le armi (norma particolare inclusiva), ciò significa che è consentito entrare senza armi (norma generale esclusiva). Ma ci si domandi: se sono munito di un piccolo bastone (che non è detto sia un’arma), il mio comportamento rientra nella norma generale esclusiva o nella norma generale inclusiva? Potrò o non potrò entrare, munito di un piccolo bastone, in quella sala? La lacuna dell’ordinamento su questo punto significa semplicemente che in questo caso è incerto quale sia la norma da applicare. La lacuna dell’ordinamento consiste, in realtà, nella incertezza insuperabile sulla norma da applicare. La questione nascente da questa incertezza è razionalmente indecidibile.
Una tale indecidibilità consente di svolgere, a questo punto, una riflessione più generale. Si tratta di rendersi conto che il campo concettuale descritto da una norma generale esclusiva e quello descritto da una norma generale inclusiva, essendo entrambi campi classificatorii, non riescono a far discernere con certezza i loro confini. Ciò significa che l’istanza classificatoria, in quanto tale, non riesce a dare una percezione adeguata delle situazioni singolari, essendo queste – in quanto appartenenti al mondo della vita – sempre più ricche rispetto a qualsiasi istanza classificatoria. In altri termini, alla tenaglia classificatoria la vita, fatta di singole situazioni, sempre sfugge. Come un’anguilla. Il principio, in realtà, è semplicemente l’evento segnalatore di questo sfuggire essenziale.
Della questione qui discussa, in realtà, può darsi anche un’altra impostazione. Se ci si confronta con la tesi secondo la quale potrebbe darsi, in ipotesi, un ordinamento giuridico in cui sia sempre possibile trovare la norma specifica per la situazione da regolare, è possibile mostrare anche in altro modo che tale tesi è insostenibile. Essa è insostenibile per tre fondamentali ragioni. In primo luogo, le norme sono fatte di parole necessariamente generiche, e pertanto è sempre possibile il verificarsi di una situazione di confine, tale per cui non si sa se essa appartenga o non appartenga al dominio della parola giuridica adoperata. In secondo luogo, nell’evolversi delle situazioni sociali e del progresso tecnico-scientifico, possono presentarsi sempre situazioni per le quali l’ordinamento giuridico non prevede una norma specifica. In terzo luogo, è da considerare, in linea generalissima, che, essendo infinita la massa delle possibili condizioni entro cui può operare un ordinamento, imprevedibili possono essere – all’interno di queste condizioni – i significati delle norme e delle situazioni. Possono fruttuosamente trarsi, in proposito, significative analisi dalla teoria dei presupposti del contratto di Bernhard Windscheid. In realtà, in termini fondamentali, nessuna teoria può conoscere la totalità delle condizioni entro cui e a partire da cui conosce/disciplina. Per queste tre ragioni (operanti nello spazio e/o nel tempo), un ordinamento non riesce mai a presentarsi privo di lacune. La presenza di lacune, in un qualsiasi ordinamento giuridico, è, perciò, strutturale, cioè inevitabile. In questo senso, nella situazione in cui un ordinamento presenti lacune, è necessario avvalersi di principi, cioè di regole non scritte che operino là dove mancano regole scritte. L’invocazione di principi è pertanto, all’interno del funzionamento di un qualsiasi ordinamento giuridico positivo, inevitabile.
In definitiva, un principio dovrà decidere se la situazione non prevista con chiarezza dalla norma appartenga al dominio della norma generale esclusiva o a quello della norma generale inclusiva. Un tale principio non è concettualizzabile, cioè non è circoscrivibile in confini certi. In realtà, per impiegare concretamente il principio che decide, dovrà necessariamente attingersi alla forma di vita sottostante, storicamente determinata, la quale sarà l’unica a poter cooperare – qui e ora – alla concretizzazione del principio da impiegare.
Se è vero, pertanto, che un ordinamento giuridico positivo non riesce ad essere mai privo di lacune nei confronti dell’infinita massa possibile di situazioni da regolare, se ne deduce che l’idea kelseniana per cui ogni ordinamento giuridico è sempre completo non è altro che una finzione, una fictio. Ma domandiamoci: da dove questa fictio deriva? Essa nasce, in effetti, dal desiderio che l’ordinamento giuridico positivo abbia sempre una soluzione per il caso desiderato (e ciò indipendentemente dalla giustezza di una tale soluzione). Ma ciò significa che, per quanto Kelsen non lo confessi, anche la sua dottrina “pura”, esprimendo un desiderio corrispondente a una finzione, è un’ideologia. In definitiva, la dottrina kelseniana è un’ideologia che nasconde la sua natura ideologica. Una dottrina critica, essendo consapevole delle inevitabili lacune esistenti all’interno di qualsiasi ordinamento giuridico, non può non prendere atto della necessaria presenza di principi. Ma questi principi, per essere saturati e concretizzati nel loro ultimativo significato, da colmare qui e ora, non possono non attingere alla forma di vita da cui emergono. Si tratta di quello che potrebbe denominarsi l’ultimo miglio nella concretizzazione del principio.
Dicevamo che Kelsen distingue, anzi separa, i fatti della vita in quanto si auto-qualificano dai fatti della vita in quanto sono formalmente qualificati dal diritto positivo che li prevede[7]. Ma, nel momento in cui si scopre che in un qualsiasi ordinamento giuridico esistono – e non possono non esistere – principi e nel momento in cui si scopre che questi principi, per essere compresi, debbono necessariamente attingere al mondo della vita, può concludersene che il diritto positivo, mentre qualifica formalmente i fatti della vita, rinvia, attraverso i principi, a quei fatti stessi per acquisire gli specifici modelli con cui essi si auto-qualificano. Per esempio, se una norma comanda di essere diligenti in un particolare lavoro, nel momento in cui prescrive diligenza, necessariamente fa rinvio a quel mondo della vita (dei fatti) che già sa che cosa è la diligenza. E, ancora, se una norma comanda un certo comportamento e, comandandolo, implica in questo suo comando il principio del non recar danno a un altro, sta facendo rinvio, con questo suo principio del non far danno, a quel mondo della vita (dei fatti) che già sa che cosa significa il recar danno.
Pertanto, sia che la norma implichi un principio che ne è la ragione giustificativa, sia che la norma faccia riferimento a una parola-idea che non possa essere concettualizzata, sempre questa norma rinvia allo strato dei fatti della vita in quanto si auto-qualificano ben prima che una norma giuridica formalmente li qualifichi. Ciò significa che, in questi casi, viene a cadere la separazione, istituita da Kelsen, tra fatti della vita che si auto-qualificano e norme che formalmente li qualificano: viene a cadere nel senso che le norme che formalmente qualificano i fatti attingono una parte del loro significato ai fatti della vita che si auto-qualificano.
6.Norme, principi, valori
Potremmo, a questo punto, individuare più strati. Il primo, quello manifesto, è lo strato delle norme, esplicitamente scritte; il secondo strato, non immediatamente manifesto ma intelligibile a una seconda navigazione – quella intellettuale – è costituito dai principi; il terzo strato è quello dei valori, corrispondente a quei pezzi di esperienza, presenti nella forma di vita, che sono vissuti dalla stessa come modelli positivi da preservare e diffondere. Si tratta, beninteso, dei valori sentiti alla luce della forma di vita praticata, e non dei valori tout court. In ogni caso, questi valori si costituiscono, alla scala di questa forma di vita, come un buono e come un equo: si costituiscono come un “buono”, in quanto contengono modelli da preservare; si costituiscono come un “equo”, in quanto contengono una struttura bilanciata di limiti da non varcare, sia nell’insieme che nei particolari. Il buono concerne l’intero da salvare; l’equo gli equilibri minimi da preservare. Si tratta di equilibri che concernono non solo l’insieme, ma i singoli particolari, di cui deve essere garantita, nell’insieme, la dignità.
I predetti tre strati (quello delle norme, quello dei principi, quello dei valori) hanno statuto epistemologico diverso. Le norme hanno statuto logico (relativo a enti chiaramente e distintamente classificati); i principi hanno statuto analogico (relativo a enti simili, non chiaramente circoscrivibili, perché il “simile” non è concettualizzabile); i valori hanno statuto fenomenologico (relativo a esperienze di vita viva, da percepire non in termini puramente intellettuali, ma di vissuto). Le norme e i principi sono modelli in termini di pensato; i valori appartengono, invece, all’esperienza dei vissuti. Le norme si costituiscono in parallelo con i concetti; i principi in parallelo con le idee[8]; i valori in parallelo con le esperienze vive della vita. Le norme, in quanto concetti e in quanto biunivocamente legate a fattispecie serialmente uguali, si costituiscono in corrispondenza con quella figura che oggi chiamiamo algoritmo, intendendo con esso una sequenza di atti ordinati e finiti; i principi, in quanto idee e in quanto non circoscrivibili a un universo di fattispecie chiare e distinte, non sono, invece, riconducibili ad algoritmi, in quanto il loro modello di pensato è strutturalmente – cioè inevitabilmente – aperto; i valori, in quanto non riducibili alla sfera intellettuale, appartengono alla corrente pre-categoriale della vita, costituendo nella forma di vita modelli degni di rispetto. Nelle norme possiamo riconoscere figure semantiche, nei principi macchie semantiche, nella forma di vita e nel mondo della vita sorgenti semantiche. Ci si richiama alle “figure” per esprimere la nettezza della forma logica di cui si parla; ci si richiama alle “macchie” per esprimere la nettezza del nucleo interno e lo sfumato dei contorni; ci si richiama, infine, alle “sorgenti” per esprimere il flusso volumetrico, multidimensionale e pre-categoriale della vita.
Veniamo, a questo punto, a una necessaria considerazione sul rapporto tra forma di vita (Forma vivendi, Lebensform) e valori. Innanzitutto va sottolineato che questi riferimenti alla vita non costituiscono affatto un’apologetica acritica della vita rispetto alla forma. Anche la vita, infatti, può essere densa di fenomeni negativi (istinti regressivi, comportamenti compulsivi, reazioni rabbiose, sommovimenti viscerali, etc.) a cui una forma di regole deve poter apprestare rimedi. Il riferimento strategico alla vita rispetto alla pura forma significa, in questo contesto di discorso, il rinvio alla vita quotidiana degli uomini osservata nella sua capacità di praticare un ordine irriflesso e condiviso, atto a riprodursi pacificamente nel tempo. In questa pratica quotidiana, infatti, si manifesta e si declina il modo particolare con cui quella comunità vive senza strappi e senza sbalzi la sua duratura pace. All’interno di questa pratica quotidiana vive, in realtà, una condivisa e durevole forma di vita.
Questa forma di vita, in quanto storicamente determinata, e perciò relativa al tempo storico considerato, pur avendo propri valori, ha una sua struttura complessivamente bilanciata e una sua intrinseca “ragionevolezza”. D’altra parte, questa forma di vita, pur relativa, non è però arbitraria, perché mantiene pur sempre in sé alcuni connotati fondamentali dell’umano. Si tratta di un mondo umano in cui non possono vigere rapporti a piacimento. Ciò significa che una qualsiasi forma di vita, per restare umana, deve pur sempre mantenersi entro argini non valicabili, sotto pena dell’irruzione del disumano. In questo senso, a ogni forma di vita sottostà pur sempre – per quanto invisibile – un mondo umano della vita i cui limiti possono varcarsi soltanto generando quella catastrofe che consiste nell’intollerabile, nell’orrendo, in ciò che desta incubo, nel disumano. Allo scopo di percepire l’invalicabilità di questi limiti, ci siamo in altra sede intrattenuti per sostenere una tesi intorno all’idea del minimo del valore da preservare, sotto pena di catastrofe (dell’umano)[9].
Se concentriamo, perciò, l’attenzione sul principio, può osservarsi che esso costituisce il ponte di collegamento tra la norma e la forma di vita, alla quale continuamente e necessariamente esso attinge. E se consideriamo, d’altra parte, il mondo della vita in cui il principio “pesca”, ci troviamo davanti a una forma di vita storicamente determinata in una comunità. Qui, come si è già detto, il vivere presenta connotati che tendono, nel ripetersi, a conservarsi, percependosi come buoni e come equi. In altre parole, ogni forma di vita, seppur storicamente determinata, ha una sua intrinseca percezione del buono e dell’equo. Ciò significa che i principi operanti nell’ordinamento giuridico positivo, in quanto necessariamente attingono alla forma di vita sottostante, si nutrono di un buono e di un equo così come vissuto dalla forma di vita storicamente considerata.
Ci si consenta un’immagine. Come in un albero si distinguono il tronco, i vasi conduttori della linfa e la radice, così in un ordinamento giuridico positivo bisognerà distinguere le norme (costituenti il tronco e i rami), i principi (costituenti i vasi conduttori) e la linfa (costituente il mondo della vita a cui necessariamente l’ordinamento normativo attinge). Un tronco non può vivere senza linfa e senza radici. Esso, deprivato dei vasi conduttori e della linfa, è un albero morto.
Il principio, perciò, può essere compreso e concretizzato soltanto attingendo alla forma di vita da cui prende consistenza. Esso, per saturare il suo significato, necessariamente pesca nel mondo della vita sottostante, che si presuppone a fondamento vivente del principio stesso. Ciò che vale per il principio, vale ugualmente per quelle parole-idee che sono contenute in una norma e che, in quanto idee, non possono essere concettualizzate.
Ci si domandi, per esempio, sul significato da attribuire a parole come “senso della misura” ed “equità”. Pur avendo tali parole un significato di base, necessariamente ci si accorge, a un certo livello di approfondimento, che esse possono comprendersi soltanto nel contesto della forma di vita in cui sono pensate e pronunciate[10]. Le predette parole non sono, in realtà, pur non essendo concettualizzabili, hanno però una loro consistenza. Esse, cioè, non sono concetti ma idee.
Si pensi a parole-idee come diligenza, correttezza, buona fede, decoro, onore, pudore, solidarietà, affidamento, riservatezza, trasparenza, fiducia, responsabilità, fino a equilibrio, misura, equità e a ragionevolezza. Si tratta di parole-idee che, pur avendo una loro consistenza, sono – nei loro ultimativi confini – inafferrabili fuori dal contesto di vita in cui pescano. Ci richiamiamo qui a quanto abbiamo, in altra sede, specificamente analizzato, mettendo a fuoco l’idea di equità e chiarendo come essa sia leggibile secondo tre istanze diverse e fondamentali: in primo luogo, l’equità si presenta come intrinseco equilibrio dell’intero (coerenza proporzionata fra le parti); in secondo luogo, si presenta come equilibrio statico capace di ben conciliare il rapporto tra pesi e contrappesi (situazione bilanciata tra forze eventualmente in conflitto); in terzo luogo, si presenta come complesso capace di rispondere in modo proporzionato a ogni singolo elemento, mentre ogni singolo elemento è proporzionalmente parametrato sull’intero (valutazione di ogni singola situazione nella sua dignità). In questo terzo significato, a ben vedere, l’equità si presenta come capacità di discernere caso per caso, pur restando la sua capacità all’interno di una rete proporzionata. In ognuna delle ipotesi considerate, in questa struttura equitaria circola un vivente senso della misura, in base al quale debbono – secondo una geometria fondamentale – riuscire a convivere il principio dell’intero e quello dell’eccezione; ma, a un ulteriore approfondimento di sguardo, può ben comprendersi come un tale senso della misura non sia pensabile se non all’interno della forma di vita in cui quel senso è vissuto[11]. Il senso della misura, infatti, se considerato fuori di ogni forma di vita, è sostanzialmente muto. In ultima analisi, l’equità richiama, ancor più che un semplice ordine, un’idea regolativa più complessa e più antica: quella di armonia, nella quale – al suo limite puro – ogni elemento è in rapporto proporzionato con qualsiasi altro, mentre l’insieme vive una sua intrinseca e perenne proporzione.
Una qualsiasi forma di vita, guardata nel suo svolgersi quotidiano, è capace di ri-prodursi continuamente come tale, essendo sempre capace di rispondere con una sua intrinseca statica a tutte le forze di rottura. In questo senso, l’irruzione del disumano è evento che squarcia la statica virtuosa del quotidiano (si pensi, solo per un esempio, alla guerra civile, senza dimenticare – peraltro – tutte le nascoste guerre civili che sono stermini invisibili). Qui si percepisce, in realtà, lo stretto nesso intercorrente tra forma di vita e senso dell’umano.
Le precedenti considerazioni sull’identità del principio e su quella delle parole-idee possono accendere una nuova luce su quella che viene chiamata “interpretazione evolutiva”. L’idea corrente dell’interpretazione evolutiva, in realtà, è quella per cui essa costituisce, nello svolgersi del tempo, un clandestino sottrarsi alla regola dell’interpretazione stabile. L’interpretazione evolutiva, invece, consiste nell’evento inevitabile per cui è strutturalmente necessario – alla comprensione di un principio – il ricorso alla forma di vita sottostante. In altri termini, l’interpretazione evolutiva non è fenomeno eventuale, ma strutturale: ciò, nel senso che essa inevitabilmente accompagna la comprensione di un principio, anzi ne fa parte costitutiva. In conclusione, ogni principio, per essere individuato e compreso, deve essere percepito nel suo perenne fare rinvio alla sottostante forma di vita che lo nutre.
7.Dal presupposto ontologico al presupposto onto-epistemologico: la ragione vivente
È da pensare, però, a questo punto, una situazione ancora più radicale. Abbiamo precedentemente sottolineato che in un ordinamento giuridico esistono due tipi di principi: uno di carattere logico-formale e logico-funzionale e l’altro di carattere logico-sostanziale. Sia che si pensi ai principi del primo tipo, sia che si pensi ai principi del secondo tipo, bisogna necessariamente presupporre, a loro fondamento, una ragione vivente di cui essi costituiscono proiezione. Non può esserci ordinamento giuridico, infatti, se non è guardato a partire dalla ragione vivente che è propria di ogni essere umano. Questa ragione, a ben vedere, è portatrice di una struttura che non può essere cristallizzata in concetti statici, oggettivati e definiti una volta per tutte. Essa, in quanto pre-categoriale, nel suo operare sulle norme comparate fra loro, le trasforma in un insieme coordinato e capace di rispondere ai bisogni della vita.
Nel pensare a un ordinamento giuridico, pertanto, occorre pensare a tre livelli essenziali: il primo è quello riconducibile al suo presupposto logico; il secondo, quello riconducibile al suo presupposto ontologico (mondo della vita sottostante); il terzo, quello riconducibile alla ragione umana vivente che quell’ordinamento giuridico permanentemente struttura come tale. Questo terzo livello costituisce il presupposto epistemologico dell’ordinamento giuridico. Anzi, più propriamente, costituisce il suo presupposto onto-epistemologico: si tratta, infatti, di presupposto che non opera soltanto nel mondo logico, in quanto appartiene direttamente al mondo delle condizioni ontologiche di possibilità.
Una tale situazione strutturale può essere disegnata in termini più direttamente concreti. Il presupposto onto-epistemologico dell’ordinamento giuridico è, infatti, concretamente rappresentato da quelli che Herbert Hart chiama i funzionari che rendono effettivamente vigente l’ordinamento giuridico di cui si occupano[12]. Come è noto, nella concezione hartiana, i funzionari che rendono effettivo l’ordinamento operano “dal punto di vista interno”, in quanto applicano l’ordinamento assumendone in proprio i criteri di validità. Si badi. È necessario, qui, andare oltre la stessa concezione hartiana. La condizione mentale del “punto di vista interno” (che non è quella del “punto di vista esterno”) non significa soltanto il mentale indossare un certo punto di vista, perché, più radicalmente, implica il vivere questo punto di vista avendo alle spalle la ragione vivente che alimenta colui che quel punto di vista esercita. In sostanza, i funzionari hartiani, in quanto esercitano il punto di vista interno, non assumono soltanto una prospettiva mentale, ma vivono quella ragione che consente loro di attuarla. Essi, operando dal punto di vista interno, hanno alle spalle la forma di vita a cui attingono per rendere qui e ora effettiva la sua matrice. I funzionari hartiani, avendo introiettato l’ordinamento, lo giocano, per così dire, a memoria: e si intenda qui per memoria non semplicemente la memoria pensata, ma quella vissuta. In definitiva, i funzionari hartiani costituiscono, alla loro scala, quella ragione vivente che è parte della più grande ragione vivente propria della comunità di riferimento.
8.Il diritto come esperienza: per una caratterizzazione a più strati
L’attività umana, come è noto fin dall’antichità greca e romana, può essere concepita in tre forme: come un fare (ossia un facěre, un poieìn), come uno speculare (ossia un cogitare, un theorein) e come un agire (ossia un agěre, un práttein). Nella prima forma si produce (col corpo) qualcosa che ancora non c’è, nella seconda forma si vede (col pensiero) qualcosa che già c’è, nella terza forma si opera istituendo un comportamento che non ha un oggetto esterno, dal momento che si tratta di un “oggetto interno” che non si presenta intellettualmente esauribile nella sua auto-consistenza. La prima forma è produttiva, la seconda forma speculativa, la terza forma performativa. Nella prima forma si pro-duce un oggetto esterno rispetto al produttore; nella seconda forma si specula su un oggetto esterno rispetto a chi lo studia; nella terza forma si dà luce a un oggetto che resta interno alla stessa attività esercitata. Nella prima forma si produce; nella seconda si teorizza; nella terza si pratica un comportamento.
Se si guarda, a questo punto, al diritto e alle sue espressioni storiche, può osservarsi che anche esso è prospettabile secondo le tre predette forme: sia nella forma produttiva del facěre (fare norme, leggi, codici), sia nella forma speculativa del theorein (studiare norme, leggi, codici), sia nella forma performativa dell’agěre (praticare consuetudini, costumi, usi).
In linea generalissima, il diritto, esprimendosi in tutte queste forme, può chiamarsi – in ogni sua modalità – esperienza: anzi, come ha acutamente proposto Giuseppe Capograssi, esperienza giuridica (la quale, per lo stesso Capograssi, non è altro che un aspetto di quella che egli chiama l’esperienza comune). Si faccia attenzione: la scelta capograssiana del sintagma «esperienza giuridica» non costituisce affatto espressione nebulosa o incerta, detta all’ingrosso e alla buona, perché nasce da una opzione epistemologica precisa, molto consapevole di sé, anche se formulata, alla maniera capograssiana, con sommessa discrezione. Questa espressione («esperienza giuridica»), infatti, è il modo più coerente e complessivo per cogliere, pur nella varietà delle forme riguardate, l’unità e l’omogeneità del fenomeno-diritto di cui si sta parlando.
In tale contesto di discorso possiamo guardare al diritto a partire dal suo primo grado, ossia da quel grado zero che è la pratica sociale. In questo senso, il diritto si manifesta come l’esperienza di un ordine sociale vivente: collettivamente ripetuto, esteriormente percettibile e socialmente garantito. Si tratta di una prima forma del diritto – quella antropologicamente irriflessa – consistente in un agěre sociale che si esprime come pratica collettiva, cioè come pratica etica («ethos») e/o come pratica giuridica («ethos etico-giuridico»), nascente dal mondo della vita, o meglio dal mondo sociale della vita umana. Ogni pratica collettiva, lo sappia o non lo sappia, è pratica di regole, ma nel senso che le regole praticate non sono in alcun modo separabili dalla pratica stessa, perché ne fanno inscindibilmente parte. Ciò significa che non ci sono, da una parte, una pratica e, dall’altra, regole praticate, perché si è davanti a un fenomeno sociale compatto, in cui le regole sono inconsce, irriflesse e parti integranti del fenomeno stesso. Queste regole, in realtà, sono leggibili in quella pratica come in filigrana. Addirittura, a volte gli stessi praticanti si accorgono della presenza di queste regole solo nel momento in cui le regole sono violate. Guardando a questa pratica sociale, occorre capire che si tratta, in realtà, di quella esperienza sociale in cui Ludwig Wittgenstein vedeva una Lebensform, una forma di vita, cioè una pratica che è costitutivamente incarnazione di regole, per quanto irriflesse. D’altra parte, questa pratica sociale, in quanto individua una forma di vita, può chiamarsi più correttamente pratica comunitaria, ove per comunità si intenda non l’utopia del felice stare insieme, ma un complesso di persone in relazione che sono, più o meno riflessivamente, consapevoli del loro essere – nel bene e nel male – un’unità sociale esposta a un comune possibile pericolo.
A un secondo grado, il diritto si presenta come il prodotto di un facěre, cioè di un’attività riflessa che produce norme, leggi, codici. Si tratta di quel facěre che i giuristi chiamano di solito fonte del diritto e che altri giuristi, in polemica con quelli che confondono il diritto antropologicamente vivente (ius) col diritto artificialmente prodotto, preferiscono chiamare, in modo abbreviato, Lex, cioè Legge.
A un terzo grado, il diritto si presenta come l’oggetto di un theorein, cioè di un guardare teorico che cerca di delineare, del diritto (inteso nel primo e nel secondo grado), identità e confini. Non va trascurato, però, che l’attività riflessa in cui consiste lo sguardo teorico, se da un lato cerca di cogliere l’identità di un oggetto-diritto già costituito, dall’altro lato, prolunga lo stesso diritto di cui è sguardo teorico. In altri termini, la scienza che guarda il diritto esistente concorre, d’altra parte, alla sua ulteriore produzione. Ciò significa che questa scienza del diritto indica oltre di sé una ulteriore scienza che dovrà speculativamente tener conto di ciò che la precedente scienza ha prodotto.
A un quarto grado, il diritto si presenta come un agěre di secondo livello, ossia come una pratica giurisprudenziale e dottrinale. Non solo. Questo agěre si presenta anche nella forma di prassi contrattuali e istituzionali e, ancora, nella forma delle prassi degli organi costituzionali supremi: prassi, queste ultime, che ̶ sedimentandosi ̶ si pongono all’origine di quella che viene chiamata – a integrazione e/o modifica della costituzione formale – “costituzione materiale”. Si tratta, in ogni caso, di pratiche e di prassi in cui continuamente emerge un rapporto, più o meno stretto e più o meno consapevole, con la linfa proveniente dal sottostante mondo della vita.
Dalle precedenti considerazioni può enuclearsi il particolare rapporto che si istituisce, nel diritto, fra esperienza irriflessa ed esperienza riflessa. Procediamo per gradi. Abbiamo sottolineato che è già diritto quella pratica antropologica irriflessa in cui le regole risultano incarnate. Una pratica antropologica, perciò, è già ordine vivente. In questo senso, una forma sociale di vita è già regola in atto, inseparabile dalla vita di cui è regola. Si tratta, infatti, di una Lebensform. Una tale forma di vita, già a questo suo primo livello, è esperienza di un ordine sociale ripetuto, percettibile e garantito. In questo orizzonte, il diritto non aspetta una legge per sussistere come tale.
Questa forma irriflessa, però, non rimane chiusa in se stessa. A una seconda approssimazione essa si prolunga in progressive forme riflesse, facendosi arte, tecnica, scienza, prodotto positivo, usi contrattuali, interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali, e così via. In un tale fenomeno progressivo è possibile rilevare un movimento almeno doppio: quello per cui l’esperienza irriflessa si prolunga in esperienza riflessa e quello per cui l’esperienza irriflessa, prolungandosi in esperienza riflessa, si conosce attraverso una scienza e si prolunga attraverso la stessa scienza conoscente. Pertanto, la scienza del diritto, mentre è conoscenza del diritto, si rivela anche momento interno alla sua produzione.
Dalla complessa architettura qui delineata si evince che nel fenomeno-diritto si distinguono un’attività irriflessa e un’attività riflessa. In questo senso, anche al livello riflesso si ri-costituiscono un agěre e un facěre.
9.Ars e techne, ars e scientia, ermeneutica e metodica: per una tavola delle corrispondenze
A una prima approssimazione, possiamo dire che, se confrontiamo la greca techne con la latina ars, l’una appare la mera trasposizione linguistico-semantica dell’altra. Ciò che è la techne per i greci, sembra essere l’ars per i latini. In questa luce, la techne è la messa in opera di una conoscenza teorica, così come ne è la messa in opera l’ars. Non intendiamo, qui, cimentarci in una disamina dei molti modi in cui storicamente e filologicamente è stata impiegata la parola techne in lingua greca e la parola ars in lingua latina. È nostra intenzione, invece, porre qui un problema di carattere strutturale, che investe contemporaneamente l’antico e il moderno, interrogando l’uno e l’altro alla radice.
Arriviamo, perciò, a una seconda approssimazione. Se impostiamo l’indagine sul piano del rapporto fra una teoria e una tecnica, la domanda incrocerà un problema ulteriore. Si tratta della completezza o dell’incompletezza dei presupposti teorici da cui si parte. Impostata in questi termini, la questione del rapporto fra conoscenza teorica e applicazione si porrà in termini nuovi, riguardanti il quesito: un’attività applicativa in qual modo si configurerà rispetto a una conoscenza teorica, se questa è strutturalmente incompleta e quindi abbisogna, nel suo momento “applicativo”, di una integrazione-invenzione? La questione appare più chiaramente, quasi ictu oculi, quando si confronta la pratica dell’artigianato con quella dell’arte in senso vero e forte. Nel primo caso, l’artigianato appare la messa in esecuzione di una conoscenza teorica che la precede e che è capace di infiniti esiti concreti, tutti intesi come unità seriali, come copie; nel secondo caso, invece, l’arte appare la messa in opera di una conoscenza teorica che strutturalmente non contiene e non può contenere tutti i presupposti teorici per l’opera da realizzare, sicché i molteplici possibili esiti realizzati non si presentano come mere copie, ma come risultati di invenzioni (risultati che non sono serialmente uguali, ma opere liberamente simili e, nelle ipotesi più raffinate, originali).
Certamente, in tale contesto di discorso, possiamo dire che la techne e l’ars esprimono una messa in opera di presupposti teorici che precedono; ma, mentre nella dicitura techne appare prevalente il significato di una messa in opera puramente applicativa, nella dicitura ars appare prevalente, invece, il significato di una messa in opera che non può essere meramente applicativa.
Si venga, a questo punto, al rapporto – omologamente istituibile – tra arte e scienza. Se si riflette sul movimento dello sguardo teorico, possiamo considerare due possibili percorsi. Il primo è dato da una scienza che, mettendo in opera un metodo preciso, cerca di conoscere chiaramente il suo oggetto; il secondo percorso, invece, è dato da un talento che, esercitando la sua sensibilità, riesce a cogliere, all’interno delle norme teoricamente studiate, dei principi, ossia delle regole non scritte che costituiscono la ratio di ogni singola norma osservata e la mettono in relazione con le altre. In questa luce, se la norma e l’insieme di norme possono essere oggetto di scienza, l’intellezione di principi che vivono dentro le norme e fra le norme è oggetto di un’attività speculativa che è, più propriamente, arte.
Si osservi: nella contrapposizione fra arte e tecnica, l’arte ha un prevalente significato operativo; nella contrapposizione fra arte e scienza, invece, l’arte ha un prevalente significato speculativo. In questo contesto di riferimenti, l’arte, avendo una componente operativa e una speculativa, si colloca, secondo questo ulteriore profilo, fra il livello puramente operativo della tecnica e il livello puramente speculativo della scienza. In ambedue i casi, l’arte presenta un carattere inventivo, realizzato sia nel momento operativo che in quello speculativo.
Se guardiamo, a questo punto, alla triplice distinzione precedentemente operata (“produrre”, “speculare”, “praticare”), occorre introdurre un’ulteriore precisazione, che investe ognuna delle forme sopra distinte. In ognuna delle tre forme, infatti, può discernersi una variante ermeneutica e una puramente applicativa. Nella variante ermeneutica si dà una pluralità di possibili percorsi fra i quali un soggetto di talento deve saper scegliere, allo scopo di arrivare al migliore risultato; nella variante puramente esecutiva, invece, si dà un unico percorso che un soggetto addestrato deve saper portare a compimento, allo scopo di arrivare all’esatto risultato. Nella prima variante, prevale la qualità di un talento; nella seconda l’attività vincolata di una habilitas. Nella prima variante prevale l’inventività, nella seconda la ripetitività; nella prima variante prevale la capacità del talento, nella seconda la qualità dell’esperto.
Vediamo ora, in questo orizzonte di riferimenti, le tre forme di attività di cui abbiamo parlato: nella prima forma, l’attività del produrre può porsi nella variante ermeneutica (“ars”) e in quella puramente esecutiva (“techne”); nella seconda forma, l’attività del theorein può porsi nella variante ermeneutica (“ars”) e nella variante metodica (“scientia”); nella terza forma, la pratica sociale può porsi nella variante ermeneutica (libera pratica vivente) e nella variante meramente esecutiva (comportamento conformistico, stretta osservanza).
Nella prima variante, quella ermeneutica, si dà una interpretazione; nella seconda, quella meramente esecutiva, un’applicazione. L’interpretazione e l’applicazione differiscono in tre aspetti fondamentali: nel punto di partenza, nell’itinerario percorso, nel risultato conseguito. Nell’interpretazione il punto di partenza è la presupposta falda vivente, pre-categoriale e inesauribile (sostanziantesi in una pre-comprensione, considerata sia nella guisa strutturale che in quella storico-concreta); l’itinerario è discrezionale e flessibile; il risultato è opzionale e liberamente valutabile per qualità. Nell’applicazione, invece, il punto di partenza è rigidamente cristallizzato e calcolabile; l’itinerario è vincolato; il risultato è esatto (o non è).
Nelle tre attività sopra delineate possono darsi, pertanto, tre forme: un interpretare producente o un applicare producente, un interpretare speculante o un applicare speculante, un interpretare praticante o un applicare praticante.
In tutte e tre le forme, così articolate, il diritto può trovare forse, a questo punto, una illuminante sistemazione. Se osserviamo, infatti, la forma della pratica sociale, il suo livello ermeneutico consiste nel praticare quell’ordine incarnato che consiste nel senso del buono e dell’equo così come sentito nel contesto di quella forma di vita. E si intenda, qui, il “buono” come ciò che quella forma di vita intende preservare e l’“equo” come il senso del minimo da salvaguardare e del troppo da non varcare. Si tratta, in ogni caso, del buono e dell’equo nel contesto della forma di vita che lo vive come tale.
Se si istituisce, a questo punto, una tavola di corrispondenze fra coppie opposizionali, possiamo individuare una sequenza così impostata: arte/tecnica, arte/scienza, interpretazione/applicazione, ermeneutica/metodica. Una simile tavola di corrispondenze può essere incrociata con l’altra, di cui abbiamo già parlato, riguardante i tre tipi di attività umana: produrre, speculare, praticare. Da un tale incrocio nascono altrettante coppie corrispondenti: per esempio, arte producente/tecnica producente, arte speculante/tecnica speculante, arte praticante/tecnica praticante, interpretazione producente/applicazione producente, ermeneutica producente/metodica producente, e così via.
Non si corra il rischio di considerare le distinzioni qui esemplificate come il risultato di un puro divertimento enigmistico. Esse, invece, vanno percepite nella loro capacità di individuare figure e sfumature che potrebbero facilmente sfuggire a un esame disattento.
Va sottolineato – a questo punto – che, se si guarda allo specifico fenomeno del diritto, la dimensione della pratica si presenta più particolarmente come pratica sociale, o meglio collettiva. Considerando una tale pratica secondo la distinzione di cui alla predetta tavola delle corrispondenze, possiamo cogliere in questa pratica una dimensione più propriamente libera e una più propriamente applicativa. In questo orizzonte, il diritto, al suo grado zero, si presenta sia nella dimensione di una libera pratica sociale che discrezionalmente interpreta la condizione umana dell’essere-insieme, sia nella dimensione della pedissequa esecuzione, che semplicemente applica le regole ricevute. Può considerarsi, in proposito, un significativo apologo di Herbert Hart, che può qui costituire un prezioso esempio: ogni giovedì gli inglesi usano andare al cinema; ma ciò non significa che essi sono costretti ad andare al cinema. Si tratta di una libera pratica, che istituisce il suo principio senza esserne ripetitiva e conformistica applicazione.
In realtà, nella prospettiva qui esplorata si gioca una partita epistemologica che ha profili ancora più generali e pregnanti. Mentre la dimensione ermeneutica allude a una condizione in cui accadono una pre-comprensione vivente e una libera capacità interpretativa (sia nel campo del produrre che in quello dello speculare e del praticare), la dimensione metodica allude a una condizione in cui si hanno, da un lato, un punto di partenza consistente in un protocollo completo e, dall’altro lato, una vincolata messa in esecuzione. Ciò significa, più in generale, che nella dimensione ermeneutica si presuppone l’esistenza di una falda vivente e incalcolabile che necessariamente precede ogni attività, mentre nella dimensione metodica si presuppone che il protocollo di base possa essere puntualmente calcolato e applicato. In altri termini, la dimensione ermeneutica ha da fare con l’arte, mentre la dimensione metodica ha da fare con la tecnica.
Ma ciò significa, al tempo stesso, la prefigurazione di due diversi mondi epistemologici: mentre nel secondo si dà una perentoria alternativa fra il puro arbitrio e la determinazione vincolata, nel primo, invece, si introduce un ulteriore attore, costituito dalla libera ispirazione nascente da un mondo della vita che necessariamente precede e che non può essere preventivamente calcolato. In questo orizzonte di riferimenti, mentre nell’universo epistemologico à la Jacques Monod (di carattere scientifico-metodico-calcolistico) si prefigura un’alternativa secca fra caso e necessità ( in termini matematici corrispondenti, fra arbitrio e sequenza deterministicamente calcolata), nella dimensione ermeneutica si configura, invece, un terzo attore, costituito da una falda vivente (preventivamente incalcolabile) che matura in un’ispirazione, in una discrezionalità, in un fine e in una libertà. Nell’universo epistemologico à la Jacques Monod manca l’idea del fine. Il che significa che manca l’idea della vita e quella della libertà.
In questo contesto di riferimenti, la questione della libertà si rivela epistemologicamente cruciale. Essa reclama, nel mondo del reale, un suo posto. È capitato a chi scrive di assistere a una dotta disputa tra filosofi, nella quale ognuno argomentava, contro l’altro, la sua tesi, centrata sull’esistenza o sulla non esistenza della libertà. Nessuno dei due disputanti, però, si domandava se egli, parlando a favore o contro la libertà, era libero. Consideriamo attentamente le due ipotesi. Guardiamo la prima. Colui che negava l’esistenza della libertà stava contemporaneamente dicendo che egli non era libero nel momento in cui affermava la sua tesi. Il che semplicemente significava che egli nulla stava dicendo, essendo un puro meccanismo risuonante. Guardiamo la seconda ipotesi. Colui che, invece, affermava l’esistenza della libertà, semplicemente stava affermando ciò che presupponeva, cioè la sua libertà. In realtà, in entrambe le ipotesi, la libertà non poteva essere oggetto del discorso perché semplicemente ne era il presupposto.
Nell’ambito di ogni rigido determinismo, logico o fisico che sia, ci si accorge che un qualcosa, a un certo punto, cerca spazio, non deducibile dalla sequenza osservata. Se si considerano, in tale contesto, le idee presentate da Thomas Khun nel suo ormai classico testo La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), può istruttivamente scoprirsi come alla base di ogni rivoluzione scientifica si dia un’idea nuova, non deducibile dallo sviluppo scientifico precedente, e come si dia, perciò, il farsi luce di un’arte.
10.Un’architettura di strati
Facciamo un breve riepilogo. Abbiamo già in altra sede analiticamente mostrato[13] come in un ordinamento giuridico si possano strutturalmente distinguere tre strati, non omologabili fra loro: le norme, i principi, i valori. Le norme sono regole chiare, distinte e ben circoscritte che disciplinano fattispecie da intendere come serialmente uguali, cioè come copie; i principi sono, invece, regole che non possono essere chiaramente e distintamente circoscritte, in quanto riguardano fattispecie collegabili solo secondo il criterio non concettualizzabile della somiglianza (più precisamente, di una somiglianza avente una medesima ratio), e perciò comprensibili soltanto a partire dal mondo della vita a cui attingono; i valori sono, infine, frazioni di esperienza viva considerati degni di essere modellizzati e salvaguardati. Le norme e i principi appartengono al mondo intellettuale del pensato; i valori, all’esperienza del vissuto.
In tale orizzonte, le norme, i principi e i valori hanno statuto epistemologico diverso. Le norme hanno statuto logico; i principi statuto analogico; i valori statuto fenomenologico, precisamente da intendere in termini di vissuto. Come si è altrove precisato[14], le norme appartengono all’ordine logico dei concetti, i principi all’ordine analogico delle idee, i valori al mondo fenomenologico della vita vissuta. Si sottolinea ancora una volta che, quando si dice valori, si intendono non i valori assoluti, ma quelli percepiti da quel determinato mondo della vita come valori, ossia come frazioni di esperienza da salvaguardare, trasformare in modelli e diffondere.
In questa complessiva struttura, i principi costituiscono il necessario ponte di collegamento tra le norme e il mondo della vita presente nei valori. Mentre le norme hanno un chiaro e distinto significato logico autoconsistente, i principi non possono essere compresi se non attraverso il rinvio al mondo dei valori, di cui costituiscono la proiezione – ossia la trascrizione – in termini intellettuali. In questo senso, i principi, non essendo concettualizzabili come enti logici esaustivi, possono corrispondere a quei significati che i giuristi talvolta chiamano “clausole aperte”. In questo senso, i principi sono assimilabili, in termini di immagini, a una cannuccia che, pescando in un liquido, gli consente di venire alla luce: se quel liquido non esistesse, nulla potrebbe emergere alla superficie.
11.Il simbolico
Si è già sottolineato che i principi sono quelle regole non scritte – o meglio quelle regole non formulabili in maniera esaustiva – che sono necessarie per cogliere la ratio di ogni norma, per connettere ogni norma con le altre e per cogliere i casi simili e le materie analoghe. Ma, come ancora si diceva, questi principi, frutto di un’intellezione ermeneutica che è propriamente arte, non sono identificabili se non a partire dal mondo della vita. Sono, in ogni caso, individuabili più principi, fra loro concorrenti, se non in opposizione. Sorgerà a questo punto la domanda: quale principio è da considerare più forte in caso di concorrenza e quale prevarrà in caso di opposizione?E, inoltre, nel caso della concorrenza fra più principi, quale figura di composizione (e attraverso quali prevalenze parziali) dovrà essere inventata? I principi, infatti, non possono porsi fra loro così come fra loro si pongono le norme, le quali sono gerarchizzate secondo un criterio desumibile dall’ordinamento giuridico stesso (generalmente: di forza, di tempo, di specialità). Si tratta, nel caso delle norme, di una gerarchia nascente dal diritto positivo stesso. Il rapporto di forza tra i principi, invece, si svolgerà secondo un criterio diverso, direttamente connesso al mondo della vita, ai suoi significati e ai movimenti storico-sociali che lo attraversano.
A ben vedere, i significati circolanti nel mondo della vita posseggono maggiore o minor forza a seconda della energia simbolica in essi intrinsecata. Una tale energia si manifesterà in più possibili forme.
Diventa necessario, a questo punto, interrogarsi sul simbolico e sul simbolo. Come già altrove si è sottolineato, chiamiamo simbolo una realtà fenomenologica, che si dà come forza, come significato e come corpo[15]. Si tratta di un corpo non necessariamente empirico, fenomenico, ma fenomenologico, che – come tale – si dà, in qualsiasi modalità, alla coscienza; al limite, può essere corpo anche un’assenza e un’attesa, così come può essere corpo una speranza o un ricordo o un sogno o un’illusione o un lampo interiore di luce o un guizzo del sangue. In ultima analisi, possiamo individuare nel simbolo alcune componenti essenziali: una forza energetica (mobilitante), un corpo, un significato, una stratificazione di livelli e un qui e ora in cui necessariamente quel significato-simbolo risuona. In questo senso, il simbolo – a differenza del concetto e dell’idea, che mantengono una loro identità fuori dal tempo – è un significato che necessariamente risuona nell’esistenzialità incarnata del qui e ora. Si tratta, però, di un qui e ora caratterizzato non dall’effimero scorrere del chronos, tempo che sbriciola e brucia, ma dalla forza del kairòs, tempo che cresce e dura: si tratta, perciò, di un qui e ora capace di traboccare oltre di sé. I simboli, in questo orizzonte, vanno considerati come significati che sono fonti di forza e/o come forze che sono fonti di significato. In entrambi i casi, i simboli appartengono a quella corrente energetica che attraversa la vita e che è il simbolico. Essi, a seconda del corpo in cui si manifestano, potranno darsi come segni-forza, come immagini-forza, come avvenimenti-forza, come situazioni-forza, come idee-forza, come significati-forza, e così via.
Il mondo della vita sociale, nel suo svolgersi, è perennemente attraversato dall’emergere di significati-simbolo che esercitano la loro forza, volta per volta prevalendo su altri significati, o componendosi in certa forma con essi. Intendiamo qui distinguere tra forme simboliche che si danno come accadimenti-forza e forme simboliche che si danno come idee-forza. In questo senso, possono darsi due fonti del simbolico: gli accadimenti e le idee. Accadimenti, che hanno una loro scorza empirica, fenomenica, esteriore: fatti, situazioni, interazioni, usi, sentenze, immagini, cose, segni, foto, e così via; idee, la cui realtà psichica è strettamente fenomenologica, in quanto si dà anche alla sola coscienza: immagini interiori, parole interiori, suoni interiori, noemi, correnti storiche, e così via.
Il mondo della vita è punteggiato da situazioni-choc che danno a pensare, suggerendo idee e principi nuovi. D’altra parte, lo stesso mondo della vita è attraversato da idee e principi che conquistano ̶ all’interno della forma di vita considerata ̶ una loro forza. Ci saranno tempi in cui prevarrà il criterio della riservatezza su quello della trasparenza e tempi in cui prevarrà sulla riservatezza il principio della responsabilità; allo stesso modo potranno prevalere i criteri di sicurezza su quelli della trasparenza, quelli della salute su quelli del lavoro, quelli della garanzia su quelli della celerità, e così via. Ogni tempo, ogni forma di vita è sottoposta al dominio, più o meno prolungato, di una forza simbolica che prevale, la quale mette in onda ̶ per così dire ̶ un suo satellite semantico nel cielo della contemporaneità. Questa forza, come abbiamo già detto, può esprimersi in due modi: in primo luogo, nella forma di avvenimenti che nell’immaginario sociale e nella pubblica opinione destano particolare clamore, provocando prese di posizione in termini di idee e di principi; in secondo luogo, nella forma di idee e di principi che, a prescindere dall’accadere di singoli avvenimenti, in quella temperie storica cominciano ad acquisire una particolare energia mobilitante. Questi avvenimenti e queste idee sono fonti di forza. Le abbiamo precedentemente descritte secondo la fenomenologia di vere e proprie sorgenti.
Si tratta di fonti che possono riguardare contenuti di vario tipo: estetici, religiosi, culturali, politici, giuridici, e così via. Nella misura in cui queste fonti investono significati giuridici, esse si danno come simbolica giuridica. Una tale simbolica si costituisce, perciò, come fonte di idee e di principi capaci di regolare e, in caso di conflitto, di imporre determinate forme di prevalenza o di composizione.
Si pensi, solo per un esempio, alla situazione, verificatasi in Italia, che destò un particolare clamore. Un coniuge, dopo aver autorizzato la moglie a compiere una fecondazione eterologa, cioè con seme di altro uomo, aveva disconosciuto il figlio nato da quella fecondazione. In base all’ordinamento giuridico positivo, il disconoscimento era pienamente legittimo, perché era fondato sulla verità di uno status a cui non si poteva preventivamente rinunciare. La situazione che ne nasceva, però, nelle nuove condizioni generate dallo stato della tecnologia, determinava nell’opinione pubblica uno choc simbolico, che provocava la necessità di un ripensamento. Si trattava di un ripensamento che fosse capace di introdurre principi ulteriori. Il quesito era: nel caso verificatosi, doveva prevalere la norma per cui è sempre possibile rivendicare la verità di uno status (senza potervi preventivamente rinunciare) oppure doveva prevalere il principio per cui bisognava rispettare l’autorizzazione e la parola data? Una tale situazione, in quanto determinava uno specifico choc sociale e culturale, aveva forza simbolica, anche in termini giuridici. Allo stesso modo ebbe forza simbolica la sentenza con la quale si faceva prevalere il principio della promessa data su quello della irrinunciabilità preventiva allo status di sangue; ebbe, inoltre, forza simbolica l’intero iter processuale che determinò, alla lunga, anche un mutamento della legislazione statale sul punto. Una concreta situazione storica era capace, pertanto, di esercitare una forza di rottura che suggeriva nuovi principi, ossia nuovi orientamenti interpretativi[16] e legislativi.
Come si è già detto, non è questo l’unico modo attraverso cui possono nascere principi-forza. Essi possono anche derivare dal maturare di una nuova coscienza civile, a prescindere da singoli avvenimenti. Si tratta, in definitiva, di correnti storiche, di sensibilità epocali, dell’emergere di nuove opinioni.
Intendiamoci. Quando si parla in termini di simbolica, non si parla di un bene o di un male. La simbolica, in quanto forza energetica, prescinde dal bene e dal male. Esistono forze simboliche capaci di produrre catastrofi, come già hanno mostrato certe nefaste forze carismatiche, storicamente ben note. Così come esistono forze simboliche che sono soltanto mode intellettuali. Il simbolico, in quanto tale, è al di là del bene e del male. Nella sua fenomenologia non è facilmente discernibile il bene e il male, così come nel Mercante di Venezia di Shakespeare non è possibile distinguere fra il sangue e la libbra di carne da consegnare alle pretese di Sirok.
L’attenzione al simbolico può fare emergere, a questo punto, una questione degna di considerazione. Nel contesto del mondo contemporaneo che, scientificizzandosi e tecnicizzandosi, dà sempre più spazio e potere a forme macchiniche e algoritmiche, ossia nel contesto di un mondo sempre più freddamente proceduralizzato, il riferimento all’emergenza del simbolico accende la necessaria attenzione sulla realtà di quel mondo umano che la macchina algoritmica tende a far dimenticare. Col progredire e dilatarsi di questa macchina, si è innescato, di fatto, un processo che altrove abbiamo definito nei termini di una caduta tendenziale della quota dell’umano. Là dove l’algoritmo della macchina tende a rimuovere il senso dell’umano, l’emergenza del simbolico – nel bene e nel male – ce ne impone l’imprescindibilità. Più cresce l’algoritmo della macchina, più tende a cementificarsi la vita. Una tale cementificazione produce però, paradossalmente, proprio il contesto strutturale per l’eruzione del simbolico.
12.Per uno sguardo d’insieme
Nell’itinerario sopra esposto appare chiaro che ogni forma di vita, avendo una sua bilanciata e intrinseca “ragionevolezza”, diventa, all’altezza dell’ordinamento giuridico percorso, un insieme di principi e di norme. Potrebbe obiettarsi, però, che ̶ in base a un tale ragionamento ̶ una qualsiasi forma di vita potrebbe contenere elementi che, in altra prospettiva, sono irragionevoli. L’obiezione è certamente pertinente. Come si è già sopra sottolineato, rimane però il fatto che, nel dominio della forma di vita considerata, la sua ragionevolezza, in quanto socialmente condivisa e durevole, è ragionevolezza storicamente determinata, relativa alla forma di vita che la contiene. Nell’ipotesi in cui una tale “ragionevolezza” possa ospitare tratti che sono, in altra prospettiva, gravemente incongrui, sarà probabilmente ̶ anzi, prima o poi certamente ̶ osservabile, lungo il decorso del tempo, l’emergere di un contrasto strutturale tra forme generalmente condivise e forme che a esse socialmente si contrappongono. In questo caso, alla percezione di ingiustizia operante all’altezza delle norme corrisponderà una omologa percezione di ingiustizia alla scala della forma di vita sottostante.
Considerata una qualsiasi forma di vita, possono distinguersi, nei suoi confronti, due approcci: quello che guarda alla struttura astratta e generale dell’insieme e quello che guarda, invece, alla struttura degli eventi nella loro esistenziale unicità. Può percepirsi, in questi due approcci, la significativa distanza strutturale intercorrente fra la concezione normativistica di Hans Kelsen e quella anti-normativistica di Carl Schmitt. Si badi. Coloro che insistono sulla migliore consistenza razionale della concezione ordinamentale di Kelsen rispetto alla concezione esistenziale di Schmitt hanno buon gioco nell’osservare che un qualsiasi ordinamento giuridico, riposando su norme astratte e generali, costituisce un freno alle puntiformi iniquità di un ordinamento esistenziale à la Schmitt che, non vincolato da alcuna astrattezza e generalità, è sostanzialmente libero di decidere ciò che vuole. Nell’ipotesi kelseniana, pur giuspositivistica, la generalità e l’astrattezza della normativa di base costituiscono pur sempre una resistenza strutturale alle puntiformi iniquità. Proprio in questa luce abbiamo in altra sede individuato la paradossalità della posizione epistemologica occupata dalla concezione kelseniana fra il giusnaturalismo e la concezione schmittiana. La visione kelseniana, infatti, mentre si oppone al giusnaturalismo in nome del positivismo normativo, si oppone parimenti al positivismo anti-normativistico della concezione schmittiana, caratterizzata da una spiccata svalutazione della normativa generale e astratta. Si è già altrove osservato che potrebbe, a questo punto, istituirsi una ideale proporzione, così concepita: «giusnaturalismo : giuspositivismo kelseniano = giuspositivismo kelseniano : concezione anti-normativistica schmittiana»[17]. In sostanza, là dove si presentano puntiformi e diffuse iniquità, l’astrattezza e la generalità della normativa costituiscono pur sempre un vincolo e un freno strutturali atti a garantire un minimo di non discriminazione. In sostanza, Hans Kelsen conduce contro Carl Schmitt una battaglia analoga a quella che il giusnaturalismo conduce contro di lui. Là dove i giusnaturalisti conducono contro i giuspositivisti una lotta ideale in nome dell’equità semantica, Kelsen la conduce contro gli schmittiani in nome dell’equità sintattica. In questo senso, il positivismo di Hans Kelsen non è così positivista da impedirsi una inconfessata anima giusnaturalista.
Si badi. All’interno dei due strati costituiti dalla forma di vita e dal mondo dei valori umani inviolabili un altro fattore è, a una certa granatura di sguardo, riconoscibile: quello simbolico. Dal mondo storico della vita emergono, nel corso del tempo, forze simboliche. Esse nascono dalla scorza di avvenimenti, di situazioni, di sentenze, di nuovi usi, di immagini, di idee. Si tratta di significati che possono darsi come culturali, estetici, religiosi, politici, giuridici, e così via. Nella misura in cui si danno come significati giuridici, essi costituiscono simbolica giuridica. Un mondo immateriale di significati si fa forza energetica, mobilitante, imponendo nuove gerarchie tra i significati.
Sono emersi all’attenzione, così, più fattori: le norme, i principi, la forma di vita, il mondo dei significati umani inviolabili e le forze simboliche (avvenimenti, situazioni, sentenze, nuovi usi, immagini, idee, e così via). All’interno della struttura costituita dalla forma di vita e dai significati umani inviolabili agisce così, come quinto elemento, la realtà fenomenologica del simbolico. Mentre dal mondo della vita emerge continuamente la lezione dell’esperienza viva, il fattore della simbolica giuridica innesta nel corpo del diritto la forza reale di alcuni significati, caricati del compito di mutare la loro graduatoria in termini di forza.
Nell’edificio così concepito osserviamo un “diritto” a più livelli: a un primo livello, troviamo la pratica sociale che, come Ius, realizza un ordine vivente ripetuto, esteriore e garantito. A un secondo livello, troviamo la pratica sociale che, come arte, mette in circolo principi di comportamento. A un terzo livello, troviamo la pratica sociale che produce artificialmente norme. A un quarto livello, troviamo la pratica che, come scienza, riflette su queste norme e quella che, come arte, riflette sui principi viventi in queste norme. A un quinto livello, troviamo la pratica che, svolgendosi secondo profili più alti, si presenta come pratica giurisprudenziale e dottrinale e, come si è già sopra osservato, come prassi delle istituzioni e degli organi costituzionali supremi. Si noti, fra l’altro, come in quella formazione sovranazionale che è l’Unione Europea le sentenze abbiano acquistato una tale forza da diventare, di fatto, una vera e propria fonte legislativa.
Possono osservarsi a questo punto un movimento ascendente e uno discendente. Nel primo si va, attraverso i principi, dalla pratica sociale alle norme; nel secondo, invece, si va, attraverso gli stessi principi, dalle norme alla pratica sociale sottostante. Sia nel primo movimento che nel secondo è in atto, a ben vedere, un fenomeno ermeneutico circolante che è ars, cioè arte.
13.Ars boni et aequi: la dura replica del mondo della vita come riapparizione del tralasciato
Il diritto, a questo punto, può presentarsi allo sguardo come ars boni et aequi, come arte del buono e dell’equo. Ma in due sensi, diversi, omologhi e congiunti: nel senso dell’arte che si occupa del buono e dell’equo (genitivo oggettivo) e nel senso dell’arte che appartiene al buono e all’equo (genitivo soggettivo). In quanto arte che appartiene al buono e all’equo, il diritto è pratica sociale come arte, ossia come libera capacità di vivere in se stessa una filigrana di principi regolativi inconsci, non scritti ma vissuti; in quanto arte che si occupa del buono e dell’equo, invece, il diritto è arte che prolunga quella pratica sociale sia sul piano produttivo che su quello teorico, sia sul piano teorico che su quello che è pratico a una potenza seconda. Nel primo senso, è una pratica sociale a essere arte, cioè arte inconscia, irriflessa; nel secondo senso, è l’arte a farsi libera attività riflessa, che mette in circolo principi.
In altri termini, possiamo scoprire a questo punto che il diritto è arte del buono e dell’equo sia in quanto pratica sociale del buono e dell’equo che è arte, sia in quanto arte che prolunga e fa circolare quel buono e quell’equo a livelli secondi. In questo orizzonte, la dicitura “ars boni et aequi” riguarda sia la pratica irriflessa che quella riflessa, quest’ultima considerata nel ventaglio di tutte le sue possibili declinazioni.
Il diritto come arte del buono e dell’equo appare, perciò, come il diritto nella sua duplice prospettiva. Esso si sviluppa senza sosta nel tempo, crescendo su se stesso a sempre nuovi livelli, agglutinantisi a strati, come un universo corallino. Ciò che scorre nelle sue radici, lo sappia o non lo sappia il diritto positivo, è il buono e l’equo nella sua prima declinazione, quella della forma di vita; ciò che passa ai piani superiori è la trasformazione in ulteriori modalità di questa energia sociale originaria.
Di tutto ciò la scienza giuspositivistica contemporanea nulla sa. Essa, occupandosi di norme, ha dimenticato ̶ per inconsapevolezza del suo statuto consapevole ̶ il mondo della vita da cui emerge. Sono questi i suoi paralipòmeni, ossia la falda delle sue cose tralasciate.
Il mondo della vita, entrando continuamente in circolo nei piani superiori del diritto, ripropone alla scienza giuridica perennemente il suo conto. Ma, perché la scienza giuridica si accorga di essere connessa al mondo della vita e perché il mondo della vita possa sempre meglio imporre le sue esigenze a una scienza giuridica che se ne è dimenticata, occorre liberare quella linfa perenne che dalle radici della pratica sociale sale al diritto normativo e che dal diritto normativo scende, poi, alla pratica sociale, restando sempre quella che è: arte del buono e dell’equo, cioè ermeneutica vivente.
Intendiamoci. Quando ci riferiamo al buono e all’equo, lo facciamo in due sensi: nel senso del buono e dell’equo come essere, che appartiene come tale a una forma di vita determinata, e nel senso del buono e dell’equo come dover essere, nel senso che ogni forma di vita, pur nella sua determinatezza e relatività, deve poter pur sempre garantire, sotto pena di catastrofe, alcuni connotati minimi dell’umano. In questo senso, come meglio vedremo, la necessità del rapporto vitale col buono e con l’equo è di due tipi: riguarda l’imprescindibile rapporto della scienza giuridica con la forma di vita determinata e riguarda, inoltre, l’imprescindibile rapporto della scienza giuridica con ciò che costituisce il minimo dell’umano. Sia nel primo caso che nel secondo, la scienza giuridica e gli studiosi che la coltivano impiegano un’espressione topica con la quale affermano un tratto specifico della loro qualità disciplinare. Stiamo parlando del cosiddetto “senso del diritto”. Si tratta di quel senso del diritto che è anche il suo succo[18].
Provi pure il giuspositivista radicale a interrogarsi su come si debba intendere questo “senso del diritto” che egli stesso proclama. Certamente, per lui il senso del diritto non potrà intendersi come “senso della giustizia”, dal momento che diritto positivo e giustizia, per lui, sono concetti assolutamente separati. D’altra parte, però, per senso del diritto non potrà intendersi nemmeno il puro senso della normativa vigente, dal momento che questa, dal punto di vista giuspositivistico, può contenere qualsiasi cosa. In altri termini, l’affermato “senso del diritto” non potrà consistere semplicemente nella conoscenza del diritto positivo. Che cosa sarà, a questo punto, questo “altro” che è strutturalmente contenuto nell’espressione “senso del diritto”? Esso è il senso del principio che è presente – e non può non essere presente – in ogni normativa giuridica. Ma un tale “principio” – che costituisce la ratio di quella normativa – non può intendersi se non attingendo a quella forma di vita che nutre quella ratio: forma di vita che necessariamente incarna in sé un suo intrinseco equilibrio, una sua equità, una sua ragionevolezza, per quanto storicamente determinata. In questo senso, ogni volta che un giuspositivista invoca il senso del diritto, lo sappia o non lo sappia, sta invocando il senso del principio in cui si incarna quella forma di vita che sottende il principio stesso e che circola – necessariamente circola – nell’albero delle norme da lui studiate, interpretate e applicate. Si tratterà, in ogni caso, del senso del diritto come senso della razionalità, dell’equilibrio fra le parti e della ragionevolezza. A ben vedere, stiamo parlando, per certi versi, del medesimo nocciolo argomentativo impiegato dai teorici kelseniani contro i teorici schmittiani, di cui ci siamo già sopra occupati.
È noto che Norberto Bobbio, in una sua antica analisi, si domandava se egli si considerasse giuspositivista o giusnaturalista[19]. Egli così rispondeva: per quanto concerne il giuspositivismo come ideologia (cioè l’idea che il diritto positivo sia, in quanto tale, giusto), non sono giuspositivista; per quanto concerne il giuspositivismo come teoria (cioè l’idea che il diritto positivo sia prodotto unicamente dallo stato), non sono né giuspositivista né giusnaturalista; sono giuspositivista, invece, per quanto concerne il metodo, l’approccio. Veniamo a noi. Dire che si è giuspositivisti soltanto per il metodo, significa dire che nell’investigare sul diritto positivo, bisogna interrogarsi anche sui suoi principi. Ma – come si è già sottolineato ̶ questi principi non possono essere compresi se non nel contesto della forma di vita in cui sono radicati e da cui prendono linfa e consistenza. Se ne può concludere che ̶ anche nel metodo del giuspositivista Bobbio ̶ è ben presente il senso del diritto come esistenzialmente radicato nella forma di vita che gli dà luce.
Il diritto, prima di essere modello circoscritto di un pensare calcolante, è modello aperto di un sentire pensante. Prima di essere un concetto, è un’idea. E, prima di essere un’idea intellettualmente elaborata, è la pratica sociale di questa idea. In questo contesto, il diritto, ancor prima di essere l’oggetto di una scienza, è la cifra di un’arte. Si tratta di un’arte che, prima di essere una metodica, è un’ermeneutica, anzi un’ermeneutica pratica: un’arte da intendere, al suo grado zero, come libera pratica sociale, operante all’interno di certi argini bilanciati (si pensi, ad esempio, all’equilibrio tra gli interessi, alla negoziazione fondata su reciproche concessioni, al vicendevole affidarsi ad atteggiamenti di buona fede, all’elaborazione creativa di nuove condizioni di reciprocità, e così via). Si tratta, in definitiva, dell’arte di vivere insieme come propria di una determinata comunità civile. In questo orizzonte di riferimenti, il diritto è, in primo luogo, ermeneutica irriflessa ̶ cioè inconscia ̶ del proprio essere insieme; in secondo luogo, ermeneutica riflessa dei propri principi; in terzo luogo, ermeneutica produttrice di norme e pratiche ulteriori.
Quando Rudolf Jhering ha scritto il suo La lotta per il diritto (1872), intendeva innanzitutto la lotta per un’idea. Di quale idea si tratta? Evidentemente, dell’idea del buono e dell’equo, là dove si intenda il buono come il modello di vita da preservare e l’equo come il senso degli equilibri da rispettare e dei minimi da non violare. Certo, questi modelli sono strettamente legati a forme di vita relative, ossia a concrete comunità civili, che si sono date norme particolari. Ma, come sopra già si sottolineava, queste forme di vita non sono arbitrarie: esse devono pur sempre rispettare alcuni minimi dell’umano.
Ci si può domandare, a questo punto: nel nostro universo planetario, che si auto-presenta come “globalizzato”, a quali comunità reali, tanto diverse fra loro, potrà farsi riferimento? E, data per scontata questa insopprimibile diversità, a quali nuclei semantici di fondo, ipoteticamente sottostanti a quelle comunità reali, potrà farsi rinvio?
Qualcuno potrà, certo, sostenere che fra le tante forme di vita diverse possano istituirsi fenomeni di negoziazione culturale. Si tratta di una prospettiva che, pur avendo una sua dignità, non è però sufficiente. Ogni negoziazione, infatti, è pur sempre legata a una elaborazione puramente intellettuale, anzi intellettualistica, che da sola non regge. D’altra parte, non tutto può essere negoziato: non possono negoziarsi, per esempio, le condizioni generali a cui è sottoposta una qualsiasi negoziazione. Occorre, perciò, altro. Occorre che fra le diverse culture maturi un minimo di vissuto comune. Un tale vissuto può fiorire e svilupparsi soltanto se si creano le condizioni per il formarsi di una sensibilità specifica nei confronti di ciò che costituisce e deve costituire il nucleo di ogni cultura: il senso di quanto deve essere – sempre – salvaguardato dell’umano.
Bisogna, a questo punto, riuscire ad approfondire il senso dell’equità, portandolo alla frontiera dell’oggi. Ciò può farsi radicando questo senso dell’equità in quel fondamento per il quale il diritto di esistere è il fondamento dell’esistere del diritto. Ma l’esistere non è un concetto generale, e può essere capito solo a partire da ogni singola persona. Posto questo fondamento, l’inizio del discorso non è costituito da un’idea, ma da un’evidenza empirica: si tratta di questo singolo uomo che qui e ora mi è davanti, nella sua carne, nei suoi bisogni, nella sua precarietà temporale e nella sua fragilità. Ciò significa l’affermazione ineludibile dei bisogni fondamentali di ognuno, almeno nelle forme minime, come insopprimibili in qualsiasi forma di vita.
In questo contesto, il “senso del diritto” – di antica tradizione – deve oggi necessariamente specificarsi come senso del buono e dell’equo inteso come senso dei diritti e dei doveri umani costituenti la dignità di ogni singola persona. Si tratta di quella concezione che più volte, articolandola in termini speculativi, abbiamo chiamato giuspersonalismo.
Si badi. Concentrare l’attenzione sui diritti e sui doveri fondamentali di ogni singola persona – ossia sulla sua dignità sussistente (che, in quanto tale, precede ogni normazione giuridica) – non significa affatto parlare nei termini di un nuovo giusnaturalismo, ma nei termini rigorosi di un gius-esistenzialismo. Non si tratta, cioè, di un nuovo diritto naturale, ma di un diritto esistenziale, ontologicamente centrato sull’esistenza della singola persona – di ogni singola persona, una alla volta considerata, nessuna esclusa – come esistenziale verità.
L’intellettuale che contestasse l’esistenza della singola persona come illusione, starebbe contestando, senza saperlo, la sua stessa esistenza. Anzi, per meglio dire, egli non starebbe nemmeno contestando, perché, non sussistendo egli stesso, egli semplicemente non esiste[20].
La pluralità delle forme di vita operanti oggi nel pianeta, mentre sembra sollecitare a un diffuso relativismo, ha un nascosto effetto virtuoso: costringe a cercare che cosa sia da conservare e proteggere ̶ nell’intero pianeta ̶ dell’umano, sotto pena della cancellazione dello stesso spettatore intellettuale che guarda. In questo senso, le dottrine comparatistiche, mentre sono catturate dalla necessità scientifica di confrontare modelli culturali diversi, sono ̶ al di là della loro stessa consapevolezza ̶ costrette a domandarsi su che cosa sia necessario perché possa parlarsi ancora di umano.
Ciò accade mentre nel pianeta sembrano agire due forze gigantesche: quella che tende a radicalizzare le diversità e quella che proprio dalla consapevolezza dell’urgenza epocale trae le ragioni per salvare dalla catastrofe quanto resta dell’umano. Purtroppo, nell’attuale scontro planetario, le scienze, ancora legate a una pratica particellare e a-valoriale, non sembrano ancora culturalmente attrezzate per il livello dello scontro. La scienza che si trasforma in un algoritmo dominante e in un’algida macchina quantificatrice è l’ultima prova di questa inadeguatezza culturale. Questa scienza, in realtà, ha dilatato, acuminato e sofisticato quel tipo di sguardo che Hegel chiamava, a modo suo, lo sguardo del cameriere, che tutto sa dell’esteriorità, dei dettagli e delle quantità, ma nulla sa della qualità e dell’interiorità. E ciò vale anche se questo cameriere, oggi, ha conquistato i galloni dello scienziato, la sofisticheria della farfalla di trina e il rango del premio Nobel di grido. Lungo questa deriva, le scienze hanno tralasciato il mondo dei propri fondamenti. Hanno sepolto nel relittario dei paralipòmeni la propria essenza. Eppure, sarebbe loro bastato interrogarsi sulla linfa da cui hanno preso e continuano a prendere consistenza.
Edmund Husserl, nella sua Crisi delle scienze europee (1937)[21], aveva già lucidamente individuato la crisi radicale che attanagliava e corrodeva le scienze del Novecento: la perdita del rapporto col vissuto e col mondo della vita. Questa crisi, così acutamente messa allo scoperto, non è mai finita. Anzi, si è dilatata e aggravata. Si è pervenuti, così, anche nel campo della scienza giuridica, a una situazione in cui il labirinto delle norme non riesce più a rendersi ragione delle sue radici. Il fatto che le scienze non si accorgano di questa crisi – che è la loro stessa crisi – è il vero male oscuro.
La crisi della civiltà contemporanea non è solo la crisi dei suoi accadimenti, ma la crisi delle sue scienze. Ossia, la crisi delle scienze stesse che hanno antropizzato il pianeta. Questa seconda crisi – la crisi della scienza – significa che questa, diventando puramente formale, ha perso il rapporto originario col mondo della vita di cui era e resta, anche suo malgrado, l’espressione. La scienza, diventando puramente formale, ha perso il rapporto con la sua intrinseca verità, di cui essa non è il prius ma il posterius. Questa situazione ha generato un contraccolpo inevitabile. La scienza, diventata tutta formale, ha creduto di poter inventare in assoluto arbitrio il suo oggetto, diventandone la padrona ultima e il criterio sovrano. Posto che la verità è innanzitutto la verità della vita, e perciò pre-categoriale, la scienza ha dimenticato che essa, più che occuparsi della verità, semplicemente la presuppone. La crisi della scienza è diventata, perciò, la crisi della sua sindrome di onnipotenza e la traccia ultima della sua illusione. Ma proprio questa illusione può essere, alla fine, paradossalmente virtuosa. La dimenticanza del mondo della vita, infatti, sta producendo la dura replica di questo mondo e la riemersione del rimosso. All’occhio critico che, attraverso progressivi ingrandimenti, esamina e passa a contropelo la grana della scienza formalistica e il suo oggetto di plastica, a un certo punto accade la riapparizione del tralasciato. In questa luce, i prolegòmeni a ogni scienza giuridica che intenda presentarsi come scienza giuspositivistica, semplicemente si propongono di indicare i paralipòmeni della sua scientificità.
È necessario, perciò, ripartire dalle spalle della ragione guardante e dalle falde della vita a essa sottostante. Solo aprendo da qui il necessario varco alle ragioni del buono e dell’equo, ossia al mondo intero dell’umano (che precede – non segue – la scienza che se ne occupa), la vita del pianeta potrà intravedere, forse, la strada verso una possibile salute.
Napoli, 1 dicembre 2016
[1] H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 2000 (Reine Rechtslehre, 1960).
[2] Cit., p. …
[3] Cit., p. …
[4] Cit.
[5] Cit., p. …
[6] N. Bobbio, Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993.
[7] H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit.
[8] Sulla distinzione radicale fra concetto e idea vedi G. Limone, Persona e Memoria. Oltre la maschera: il compito del pensare come diritto alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016.
[9] Con una tale tesi si è inteso andare oltre la classica contrapposizione fra cognitivismo etico e noncognitivismo etico. Vedi, in proposito, G. Limone, La catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi, Milano 2014.
[10] Sulle varie dimensioni dell’equità ci siamo specificamente interrogati in G. Limone, Tra il principio dell’interno e il principio dell’eccezione: l’etica dell’equità, l’equità dell’etica, in G. Limone (a cura di), L’era di Antigone. Quaderni del Dipartimento di Scienze giuridiche della Seconda Università degli Studi di Napoli, vol. 4.1, FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 9-44.
[11] Cit., spc. pp. equità dell’etica (approssimazioni) citare primo par
[12] H. L. A. Hart, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino 1965 (The Concept of Law, 1961).
[13] Giuseppe Limone, Lo statuto teorico dei principi fra norme e valori, in Domenico Amirante (a cura di), La forza normativa dei principi giuridici e il diritto ambientale. Profili di teoria generale e di diritto positivo, CEDAM, Padova 2007, pp. 33-64.
[14] G. Limone, La macchina delle regole, la verità della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in G. Limone (a cura di), La macchina delle regole, la verità della vita, L’era di Antigone. Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza della Seconda Università degli Studi di Napoli, n. 8, FrancoAngeli, Milano 2015, pp. 9-61.
[15] G. Limone, Il diritto della forza, la forza del diritto, in G. Limone (a cura di), La forza del diritto, il diritto della forza, L’Era di Antigone. Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza della Seconda Università degli Studi di Napoli, n. 7, FrancoAngeli, Milano 2013, pp. 7-42. Più recentemente vd. G. Limone, Persona e memoria, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016.
[16] In proposito vedi la sentenza Cass. pen., sez. III, n. 38722/2016 del 26 aprile 2016, che ha sancito il principio di diritto per il quale, qualora sussistano una oggettiva – e documentata – crisi di liquidità, nonché gli ulteriori elementi puntualmente definiti nella sentenza de quo, l’imprenditore che non versa le tasse all’erario debba andare assolto per causa di forza maggiore.
[17] G. Limone, Codici analitici e codici simbolici. Fra Kelsen e Schmitt: il positivismo giuridico come paradosso epistemologico, in Metábasis.it, rivista semestrale di filosofia e comunicazione, VII, 14(2012), pp. 1-29. Vedi, inoltre, G. Limone, Il diritto della forza, la forza del diritto, cit.
[18] Sull’ipotesi interpretativa del jus come succo si rinvia al successivo articolo di Osvaldo Sacchi. Può istituirsi, a ben vedere, un rapporto tra senso del diritto e buon senso. Diciamo, però, “buon senso” non nel senso di un generico sentimento, provato alla buona e all’ingrosso, ma nell’accezione rigorosa del senso buono, ossia nell’accezione di quel senso che sa della differenza strutturale tra ciò che è intellettualmente formulabile e il ben più vasto mondo della vita, il quale non è mai riducibile a un mosaico di elaborazioni intellettuali. Si tratta, in realtà, di quel senso buono che, in altra prospettiva, è il senso della vita e del diritto. In altre parole, potremmo dire che nella fenomenologia del cosiddetto “buon senso” può percepirsi il senso inconscio, irriflesso, della distanza strutturale tra il flusso pre-categoriale della vita e qualsiasi sistema formale che si auto-pretenda completo. In questo “buon senso” – cioè in questo senso buono – vive, in realtà, una nascosta sapienza, di cui il buon senso non sa. E di cui non sanno nemmeno i suoi detrattori. Su questo punto ci siamo già intrattenuti in G. Limone, La macchina delle regole, la verità della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, cit.
[19] Sul punto vedi N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Laterza, Roma-Bari 2011.
[20] G. Limone, Persona e memoria, cit.
[21] Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2008 (Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, 1936).
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