Politica

Pubblicato il 2 Aprile 2024 | di Gian Piero Saladino

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L’autonomia differenziata contro l’uguaglianza dei cittadini

Che cos’è l’autonomia differenziata?

L’autonomia differenziata è l’attribuzione, da parte dello Stato a una Regione a statuto ordinario, di autonomia legislativa sulle materie di competenza “concorrente” e, in tre casi, di materie di competenza “esclusiva” dello Stato. In questo modo, le Regioni potranno trattenere per sé il gettito fiscale, che non sarà più distribuito su base nazionale per garantire a tutti i cittadini italiani livelli essenziali di prestazioni (Lep) di qualità e quantità equivalenti e non discriminanti, ma che vedranno il Sud e la Sicilia, già in ritardo nei servizi pubblici, ulteriormente penalizzati e impoveriti.

Fra le materie di legislazione concorrente ci sono i rapporti internazionali, il commercio con l’estero, la tutela e sicurezza del lavoro, l’istruzione, le professioni, la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela della salute, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, la protezione civile, il governo del territorio, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la comunicazione, l’energia, la previdenza complementare e integrativa, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, la cultura e l’ambiente, le casse di risparmio e gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. In pratica, quasi tutto.

Va detto che la concessione diforme e condizioni particolari di autonomiaalle regioni a statuto ordinario sono previste dall’art. 116 della Costituzione, che sottolinea come possano essere attribuite“con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata”. Questo comma però non è mai stato attuato, a causa delle grandi differenze economiche e sociali tra regioni, che rendono potenzialmente dannosa l’approvazione di leggi in questo senso.

Il documento dei Vescovi di Sicilia

Vista la rilevanza “storica” del tema in questione, i Vescovi delle diocesi di Sicilia hanno seguito con provvidenziale attenzione l’iter della proposta di legge sull’autonomia differenziata in discussione alla Camera, anche dopo l’approvazione avvenuta in Senato il 23 gennaio scorso.

 

Il 23 maggio 2023, avevano presentato osservazioni alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, evidenziando criticità in parte accolte ma in maggior parte rimaste ignorate.

 

Rinviando al testo del documento dei Vescovi del 5 marzo scorso chi volesse approfondire procedure e osservazioni tecnico-giuridiche, ci limitiamo qui a riportare, sintetizzando, le criticità da loro rilevate nel testo in discussione alla Camera.

 

Le criticità rilevate e ancora irrisolte

 

Il Ddl crea asimmetrie, e i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) verrebbero determinati dal Governo (art.3) con un mero atto amministrativo, fuori da un ampio controllo democratico da parte del Parlamento e delle altre Regioni. Non verrebbe neanche tutelata la “spesa storica”, già discriminante per il Sud a favore delle regioni più ricche, e verrebbe ad allargarsi la disomogeneità territoriale perché risulterebbero insufficienti le “misure perequative”.

In secondo luogo, nessun richiamo è previsto nel Ddl all’art.2 della Costituzione, fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno abbienti (10 milioni di poveri, in buona parte al Sud, ndr), ignorando che la differenziazione è un corollario del principio di sussidiarietà (introdotto dalla dottrina sociale della Chiesa) e non viceversa. La dislocazione differenziata di funzioni legislative in singole regioni non è, quindi, un adempimento necessario, e men che meno un “diritto” di alcune Regioni (le più ricche), ma solo una possibilità perseguibile dopo aver garantito il principio di solidarietà fra tutti i cittadini. Il Ddl (art.4) richiama l’attenzione sul pericolo di evitare disparità di trattamento, ma è proprio dal Ddl che tale rischio emerge.

In terzo luogo, gli artt. 5 e 6 del Ddl prevedono che le funzioni attribuite alle Regioni saranno finanziate mediante “compartecipazioni al gettito tributario” in varie forme maturato nel territorio regionale, anziché distribuendo le responsabilità fiscali fra Stato e Regioni. Compartecipazione significa che territori più produttivi avrebbero senza risponderne introiti maggiori e ciò trasformerebbe la differenziazione in diseguaglianza e creerebbe pericolo per la coesione dei territori e l’unità nazionale.

Infine, nell’art 10 non v’è traccia di fondo perequativo di solidarietà nazionale che permetta di riequilibrare le forti disomogeneità territoriali. Finché le regioni del Sud non raggiungono almeno la media della “capacità fiscale nazionale per abitante” non si può affrontare il tema dell’autonomia differenziata. Anche la riduzione del cosiddetto “fondo complementare” da 4 miliardi e 400 milioni di euro, a poco più di 700 milioni di euro rappresenta un rischio per le regioni più povere.

Il problema ulteriore per i siciliani

La Sicilia si trova immersa in uno Stato “arlecchino” con 20 regioni con profili istituzionali uno diverso dall’altro. Sulle 23 materie ogni regione potrà scegliere quali avocare a sé e quali no. Secondo la Ragioneria Generale dello Stato, la Sicilia perderà 1 miliardo e 300 milioni di euro circa l’anno: un impatto disastroso per una economia già in grande sofferenza.

La Sicilia ha già dal secolo scorso una sua specialità che è molto più rilevante della differenziazione: gli artt. 36, 37 e 38 dello Statuto della Regione Siciliana. L’articolo 36 stabilisce che al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo tributi deliberati dalla medesima, restando riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei tabacchi e del lotto. Ma l’art 38 aggiunge che lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale, una somma da impiegarsi nell’esecuzione di lavori pubblici, per bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto alla media nazionale, somma peraltro da rivedere in aumento ogni cinque anni.

A tale potente strumento, si aggiunge il comma 5 dell’art. 119 Cost., che riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità.

Quindi, la classe dirigente politica siciliana dovrebbe chiedere al governo nazionale l’attuazione completa dello Statuto e non sprecare le risorse in dotazione.

Le preoccupazioni dei Vescovi vanno intese quale stimolo per reagire agli squilibri strutturali ed economici fortemente presenti nel meridione, che potrebbero colpire l’unità nazionale in favore di preoccupanti spinte secessioniste istituzionalizzate. Quelle dei credenti che andranno a votare dovrebbero essere quelle di ricordarlo quando saranno chiamati a scegliere ciò che è buono e giusto per la nostra comunità.


Autore

(1961) Direttore della Scuola "F. Stagno D'Alcontres" di Modica, sede decentrata UNIME - Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale - ideatore e coordinatore scientifico di Corsi di perfezionamento e aggiornamento post-laurea per operatori sociali (www.unimodica.it), da 37 anni è anche Responsabile della Formazione e Comunicazione di Sicindustria Ragusa. Co-fondatore della Scuola dei Beni Comuni di Ragusa, per 9 anni ha diretto l’Ufficio Diocesano per le Comunicazioni Sociali. Già Portavoce del Sindaco di Ragusa e Dirigente della Comunicazione Istituzionale del Comune di Ragusa, è stato Presidente dell’AVIS provinciale di Ragusa, Consigliere Nazionale dell'A.I.F. (Associazione Italiana Formatori) e Presidente del MEIC diocesano di Ragusa. Scrive articoli e brevi saggi di argomento politico, economico, sociale e religioso.



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