Pubblicato il 3 Marzo 2014 | di Lettera in Redazione
0L’Italia riparte dal sud? Dipende
Pubblichiamo una riflessione trasmessaci da Giorgio Massari, cattolico ragusano impegnato in politica, e intitolata “L’Italia riparte dal sud? Dipende”. Al riguardo, la redazione non assume una posizione specifica, ma lascia spazio al confronto pubblico, impegnandosi a dare analoga opportunità a chiunque volesse intervenire sull’argomento.
Voglio dare seguito a quanto chiedeva il presidente regionale della piccola industria, Giorgio Capello: “ Rimettiamo al centro del dibattito le imprese. Quella piccola e media impresa che ha permesso all’Italia di diventare il secondo Paese manifatturiero in Europa e che oggi, invece, è messa all’angolo da una economia drogata dalla pubblica amministrazione”. Il convegno organizzato da Confindustria a Ragusa ai primi di Febbraio non può essere derubricato ad un momento auto celebrativo di una organizzazione prestigiosa che crea un palcoscenico in cui dirigenti imprenditoriali, ministri e governatori recitano il loro copione e tutto finisce con un applauso finale. Il tema del convegno “L’Italia riparte dal sud “ e la ricca relazione introduttiva del presidente Cappello, il grido d’allarme sulla difficoltà delle piccole e medie imprese, le interessanti proposte venute fuori dai vari interventi degli illustri relatori, non possono non aprire un dibattito ampio e approfondito che produca cambiamento ed abbia ricadute concrete a livello di sviluppo del nostro territorio e del bene-essere della società ragusana. Non so se l’Italia riparta dal Sud, ma sono sicuro che se il Sud non parte, l’Italia non avrà nessun percorso di nuovo sviluppo, né alcuna possibilità di recuperare la ricchezza perduta dal 2008 ad oggi. Il tempo della crisi che, a Ragusa, nell’ultimo semestre del 2013 ( proprio quando nel resto dell’Italia si intravedevano timidi segnali di recupero in termini di Pil) si è caratterizzato per una mortalità senza precedenti di aziende in tutti settori: commercio, agricoltura, servizi, industria in senso stretto ed edilizia, ( come non ricordare la chiusa dello stabilimento Ancione e la chiusura di Tidona prefabbricati); che ha fatto schizzare in alto l’indice della disoccupazione portandolo dall’8% del 2004 al 20% del 2013, e che ha impoverito le famiglie ragusane, portandone sotto la soglia di povertà relativa ben il 28,7%, può, dunque, questo tempo diventare una occasione per progettare un nuovo sviluppo e una nuova rivoluzione economica e sociale a Ragusa? E’ possibile, se diamo profondità e verità all’analisi, al dibattito e alla riflessione. Comincio a dire che apprezzo l’impianto complessivo della relazione del presidente Cappello e vorrei aggiungere che è vero che l’azienda è “ il motore che può rimettere in moto il sistema -Paese”, ma penso che non sia l’unico. Concordo cioè con il fatto che l’azienda è un motore per lo sviluppo, ma da sola essa rimane una struttura che non va da nessuna parte, se non è dentro un sistema più ampio che fornisce il propellente e la direzione; uscendo di metafora solo se riusciamo a mettere su un sistema dialogante in cui imprese, società civile e politica riescono a estrarre ognuno per la sua parte le qualità migliori della propria funzione , si potrà tentare di uscire dal declino. La sfida per lo sviluppo è dunque economica, culturale e politica e e la risposta è la capacità di questi tra ambiti di dialogare, per questo è da apprezzare e considerare con interesse che ci sono imprenditori desiderosi di un’alleanza tra leadership inclusive cioè capaci di promuovere un’ampia partecipazione in ciascuno dei tre ambiti e la più ampia collaborazione tra gli stessi. Non è un’impresa da poco perché si tratta di cambiare una cultura economica, politica e sociale assolutamente prevalente negli ultimi cento cinquant’anni nel Mezzogiorno e in Sicilia, una cultura che premia la ricerca dell’utile nel breve periodo per cerchie e consorterie ristrette anziché progetti di bene comune con una progettualità lunga per la platea dell’intera società. Il divario storico tra nord e sud è frutto proprio di una modernizzazione passiva che non ha mai favorito uno sviluppo endogeno e partecipato , ma piuttosto un processo di sviluppo indotto dall’esterno ed una industrializzazione passiva frutto di progetti riformatori ora della tecnocrazia nittiana (Alberto Beneduce ed Angelo Omodeo ) nel periodo tra le due guerre, ora dell’intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno negli anni cinquanta; ora dal tecnicismo finalizzato a drenare i fondi europei, il tutto accompagnato da una classe dirigente(economica e politica) di tipo estrattiva orientata a rafforzare posizioni di potere e puntellare privilegi. Come mi sembra necessario sgomberare il campo da inutili luoghi comuni come il “modello Ragusa”, perché se pensiamo che in qualche tempo a Ragusa sia esistito un modello economico frutto di qualche azione razionale di programmazione economica e politica o come adesione culturale a forme di coordinamento di comunità come i distretti industriali della terza Italia, partiremmo da realtà inesistenti che non ci permetterebbero di calibrare bene le ipotesi di sviluppo. La realtà ragusana dagli anni cinquanta alla fine degli anni novanta è stata giustamente definita una economia forte dentro un sistema politico debole. La forza dell’economia iblea ha una sua base nell’eccezionalità del territorio ibleo rispetto a quello siciliano, ma solo per un aspetto: il fenomeno degli enfiteusi, cioè del frazionamento del latifondo avvenuta tra il 500 e il 600, prima della fine legale del feudalesimo nel resto del meridione, che produsse la prima rivoluzione economica ragusana con la creazione di una forte classe media, quella dei massari, che si dota una cultura imprenditoriale e si sovrappone all’autorità feudale, ma che per la sua struttura chiusa, rappresentata plasticamente dalle coorti chiuse delle masserie, non crea quelle condizioni culturali che in altre parti dell’Italia porteranno a far crescere valori non economici come fiducia , cooperazione, credito e che aiuteranno uno sviluppo imprenditoriale endogeno. L’economia ragusana è stata ed è una economia di agglomerati che solo per generosità potremmo chiamare di filiera; agglomerati senza alcuna strategia comune né forma di collaborazione; basti pensare alle contrattazioni per il prezzo del latte, esempio di come la disunione fa la forza…delle aziende di trasformazione del latte e non dei produttori. Quando arriva la crisi, l’economia ragusana si trova da sola sul campo di battaglia, senza un alleato fondamentale: la politica
La crisi ragusana è anche frutto della crisi della politica; di una classe politica incapace di porsi con forza come leader in grado di determinare le precondizioni per lo sviluppo mancando della consapevolezza delle cose necessarie da fare. Una politica che in tempo di vacche grasse ha drogato l’economia, creando quella figura che Catanzaro definisce “dell’imprenditore assistito”.
Non si tratta ora di recitare il mantra delle tante azioni che bisognerebbe fare e che sono necessarie fare, per riattivare parti dell’economia ragusana, e che tutti elenchiamo tradendo la nostalgia delle pagine gialle: ridurre i costi frizionali per chiunque ha a che fare con la pubblica amministrazione locale;rimettere al centro del dibattito politico nazionale ed europeo il recupero dei centri storici, riorientando l’industria edile del nostro territorio al recupero e alla ristrutturazione; ricentrare tutta l’attenzione sulla green-economy; migliorare i collegamenti infrastrutturali, progettare smart-city,richiedere la banda larga, sostenere il turismo, aiutare l’agricoltura, non distruggere le attività commerciali con una iniqua pressione fiscale come la Tares; sviluppare le reti creditizie et cetera.
Quanto avremo messo in atto tutto questo, sicuramente staremo meglio, ma non avremo creato quelle condizioni per evitare che il prossimo ciclo economico regressivo ci trovi di nuovo disarmati.
Economia, Politica e Società civile devono allearsi per una modernizzazione attiva che aiuterebbe tutta l’Italia ad uscire dalla palude in cui è finita. Si tratta di passare , seguendo Vera Zamagni, al terzo meridionalismo, dopo quello agrario e industrialista, il meridionalismo dei diritti civili, che significa in senso lato dei diritti di partecipazione e di rifondazione della vita civile e delle istituzioni in una prospettiva inclusiva e di riduzione delle diseguaglianze.
Come si fa questo? Convergendo sulla necessità che imprese, politica e società civile producano capitale umano e capitale sociale.
Per le imprese questo vuole dire che esse si devono sentire responsabili rispetto al territorio e alle comunità locali in cui insistono, responsabili rispetto alla qualità della vita dell’ambiente in cui sono insediate, alla qualità della vita dei propri dipendenti, alla qualità della vita della comunità politica nella quale gli imprenditori operano; che sentano come proprio il bisogno di sicurezza e di futuro della comunità locale. Significa attivare reti di collaborazione e cooperazione, di sostegno e condivisione con i soggetti economici che operano nel territorio, mostrando che quella fiducia tra operatori è della stessa natura della fiducia che deve fare da collante nella società
Per la politica significa rendersi conto che che il primo investimento che essa deve fare è quello sull’uomo; perché la modernizzazione attiva passa attraverso l’istruzione e la cultura e seguendo Emanuele Felice, attraverso scuole di livello e biblioteche vissute, reti civiche e beni pubblici animati dal basso e ancora :legalità, servizi sociali che funzionano, cultura del merito piuttosto che della raccomandazione, capitale sociale che premi l’innovazione anziché il conformismo.
Come può una politica che vuole lottare per lo sviluppo non rendersi conto che la scarsa qualità della scuola nel sud, come ci testimoniano i risultati dei test PISA(programm for international student assessment) è più grave del differenziale di pil tra mezzogiorno e resto dell’Europa; un anno di istruzione non ha lo stesso valore in Sicilia come in Lombardia; a parità di tempo si impara di meno al sud che al nord.
Come possiamo assistere inerti al declino fino all’annullamento della presenza dell’università nella nostra provincia; come possiamo assistere al declino dei pochi centri di ricerca applicati , come il Corfilac, senza pensare che stiamo replicando le precondizioni del sottosviluppo storico del sud?
Come possiamo accettare una politica che pensa alla cultura come a una stanca offerta di qualche evento più o meno popolare e non come il campo più importante attraverso il quale fare maturare nelle comunità che si governano una capacità di comprensione ed interpretazione critica della realtà?
Modernizzare attivamente il Sud significa anche che la società civile si assuma la responsabilità di attivare il dibattito pubblico, di giudicare e criticare ciò che non fa crescere capitale umano, di stigmatizzare tutto ciò che non fa crescere legalità e partecipazione attiva, di sostenere atteggiamenti tolleranti capaci di favorire il dialogo e tutelare le intelligenze anche minoritarie presenti in una comunità.
Modernizzare il sud e permetterne uno sviluppo uguale al resto del mondo è infine possibile se imprese, politica e società civile assumano la lotta alle diseguaglianze come l’elemento centrale del proprio impegno civile.
E’ necessario, dunque dare ancora più profondità alle riflessioni che opportunamente si stanno delineando nel dibattito pubblico della nostra città, non possiamo permettere che le cose che si dicono, il cambiamento che si vuole, rimanga nell’ambito dei pii desideri. E’ necessario attivare uno spazio in cui il confronto possa continuare e possa assumere i connotati di proposte operative, utilizzando come spunto le tre proposte di Cappello: rafforzare il settore manifatturiero, utilizzare a pieno la spesa dei fondi europei, snellire la burocrazia. Uno spazio pubblico pensato come attivazione di un osservatorio permanente per lo sviluppo che veda protagonisti quanti tra imprenditori, soggetti politici ed esponenti della società civile sono disposti a confrontarsi e progettare azioni concrete che sappiano generare il futuro
Giorgio Massari