Pubblicato il 29 Gennaio 2024 | di Vito Piruzza
0Pensioni, lavoro, welfare, e il paradosso dei poveri
Lavoro, welfare, pensioni, previdenza: sono alcuni dei temi che sono stati di recente affrontati a Ragusa nel corso di un seminario promosso dalla “Scuola dei Beni Comuni”. Tra gli interventi anche quello dell’ex Presidente dell’Inps Pasquale Tridico che è anche docente di economia all’Università Roma Tre e direttore del centro di ricerca di eccellenza Jean Monnet Labour, Welfare and Social Right. Abbiamo colto l’occasione per rivolgergli qualche domanda.
Lei per curriculum accademico e per esperienza gestionale è uno degli esperti più accreditati di previdenza. Parlando con i giovani sento sempre di più il refrain: “beh sì ma io non so se alla pensione ci arrivo, io non so se…” Che gli direbbe?
«Dico che non dobbiamo parlare di pensioni ma di lavoro. La pensione è frutto del lavoro. Quindi in realtà noi parliamo troppo di pensione e troppo poco di lavoro. I giovani avranno la pensione se hanno un lavoro e se il lavoro retribuito è continuativo. Uno dei principali problemi oggi della garanzia dell’adeguatezza di una pensione è appunto avere la continuità di lavoro. E la continuità del lavoro è la continuità di un salario congruo. Se questi due elementi mancano, allora la pensione non ci sarà. Ma se questi due elementi ci sono, la pensione ci sarà».
Un’altra cosa che sta a cuore alle persone, i redditi molto bassi e la problematica del salario minimo. Non è anche questo un contributo e un aiuto anche a dare più consistenza ai conti dell’Inps?
«Certamente. Da un’analisi che abbiamo fatto, abbiamo scoperto due cose importanti: Una è che il 53% dei giovani lavoratori, che hanno cominciato a lavorare dopo il 1996, hanno una pensione inferiore a 800 euro. Questo vuol dire che il problema non è la pensione che manca, ma è che queste persone hanno avuto un lavoro scarsamente retribuito e scarsamente continuativo. Il problema è tutto qui. Il modello contributivo del resto è fortemente legato al salario attuale del mercato del lavoro. Quindi quanto più compresso questo, tanto peggiore la pensione. Due l’età è uguale per tutti in uscita, non va bene. La riforma Fornero, per quanto è stata inevitabile ed ha aiutato moltissimo i conti dello Stato, ha, a mio parere, una problematicità che riguarda l’aspettativa di vita uguale per tutti i lavoratori. Questo dato, cioè il fatto che l’aspettativa di vita non è uguale per tutti, è un dato di realtà. La differenza tra il primo decimo più povero della distribuzione del reddito e il decimo più ricco è di quattro anni, cioè i più poveri muoiono prima. I più poveri molto spesso sono legati a coloro che fanno lavori gravosi e mansioni sulla terra e quindi si dovrebbe in qualche modo fare di tutto per avere una panoramica piena di lavori gravosi e usuranti non dal punto di vista politico ma dal punto di vista scientifico e abbiamo gli strumenti per farlo purtroppo non ce l’accordo. L’A.P.E. Sociale è uno strumento che permette di catturare queste differenze di gravosità nel lavoro di pesantezza del lavoro stesso ma come sappiamo è rinnovato anno per anno non è strutturale è fatto per un contentino politico. Al contrario, quella è la direzione giusta. Noi dovremmo, lasciando la Fornero come sta, cercare di capire quali sono i lavoratori che moriranno prima, e lo sappiamo, e su quelli, come dire, garantire la flessibilità necessaria».
In pratica si arriva al paradosso che non solo hanno pensioni più basse, ma ne fruiscono anche per meno tempo?
«Si arriva e attende al paradosso che i poveri che muoiono prima finanziano le pensioni dei ricchi che muoiono dopo. Noi abbiamo una prospettiva di vita media, in Italia pari a 85 anni, ma è media. Calcoliamo 20 anni di aspettativa a 67 anni, con differenze invece però molto forti».
L’Inps, oltre che previdenza, è anche assistenza.
«Da sempre si parla di separare contabilmente i due rami, perché non viene fatto? Noi in questi anni abbiamo fatto esattamente il contrario, abbiamo accorpato enti previdenziali, enti assicurativi, abbiamo creduto che fosse maggiormente efficace, si raggiungesse l’economia di scala, effettivamente io sono d’accordo. Però un’altra cosa è invece separare contabilmente, quello si può e si deve fare per avere contezza di ciò che è assistenza e ciò che è previdenza, al contrario, l’unione di clienti previdenziali, è un grande vantaggio che il nostro Paese ha e non a caso enti minori da ultimo INPGI ed enti minori rientrano e vengono accorpati in Inps. Negli anni questo è successo con diversi istituti, con Inpdap, con l’Ente dello Spettacolo, con lo Scau, a da ultimo appunto con l’Inpgi. Questo è un processo che al contrario riesce a rendere più efficiente il processo».
Ultima domanda. Parliamo del reddito di cittadinanza; andava abolito secondo lei, non andava abolito, andava modificato, c’era qualche pecca organizzativa o cosa?
«Andava lasciato in pace. Andava implementato, andava fatto tutto quello che c’era nella norma. Nella norma c’è un percorso di attivazione e un percorso di inclusione. Andavano ovviamente mobilitate le risorse che ci sono sui progetti di inclusione. Ecco, una cosa che a me ha dato molto fastidio è il fatto che i Comuni non hanno fatto progetti di utilità. Posso capire che non c’è lavoro e quindi i centri per l’impiego non prendono in carico. A Ragusa avete circa 350 percettori di reddito. Perché il Comune non è andato lì e ha attivato i lavori, immagino che ci siano cose da fare? Uno dei pochissimi comuni in Italia Bacoli in provincia di Napoli ha fatto un sacco di progetti e oggi se li ritrova tutti. Quindi questo si poteva fare, si può fare, si dovrà fare. Ecco, questo non è stato fatto. Ovviamente questa parte è quella che ha funzionato di meno, i centri per l’impiego e i progetti di inclusione. I centri per l’impiego hanno difficoltà storiche, ma i comuni hanno soltanto un vantaggio a dover fare quella roba lì. Perché non l’hanno fatto? questo rimane il mio grande dubbio, quindi in realtà bisognava rafforzare ciò che c’era, bisognava implementare ciò che ancora mancava».